«È così, ma credo di poter ottenere che si faccia un'eccezione per te. Però, mi devi promettere di non parlare della tua eresia» aggiunse ansioso.

Hugh rifletté velocemente. Gli si presentava una nuova possibilità. Suo zio?... No, sebbene fossero sempre andati d'accordo, vedevano le cose in modo diverso, e il loro sarebbe stato un saluto fra due estranei. Hugh non aveva mai fatto amicizia facilmente, ed Ertz in fondo era l'amico migliore che avesse mai avuto, figurarsi! A un tratto ricordò un suo vecchio compagno, Alan Mahoney, con cui da ragazzo giocava al villaggio. A dire la verità, praticamente non ne aveva più saputo niente da quando faceva l'apprendista da Nelson. Eppure...

«Alan Mahoney abita sempre nel nostro villaggio?»

«Sì.»

«Mi piacerebbe vederlo, se è disposto a venire.»

Alan arrivò, nervoso, a disagio, ma evidentemente felice di rivedere Hugh e sconvolto nel saperlo condannato a fare il Viaggio. Hugh gli diede una pacca sulla spalla.

«Sei un bravo ragazzo» disse «sapevo che saresti venuto.»

«Certo che sono venuto» protestò Alan «appena l'ho saputo. Al villaggio nessuno ne era informato. Credo che nemmeno il Testimone lo sapesse.»

«A ogni modo, ora sei qui, ed è questo che conta. Dimmi di te. Ti sei sposato?»

«No, ma non perdiamo tempo a parlare di me. Comunque, non mi succede mai niente. Come hai fatto, in nome di Jordan, a ficcarti in una situazione simile?»

«Non posso parlare di questo, Alan. Ho promesso al Tenente Nelson di tenere la bocca chiusa.»

«Bene, se si tratta di una promessa... ma che razza di promessa, comunque. Sei in un brutto guaio, amico.»

«A quanto pare!»

«Qualcuno ce l'ha con te?»

«Bah, il nostro vecchio amico Mort Tyler non mi è stato di grande aiuto. Questo credo di poterlo dire.»

Alan fece un fischio e scosse lentamente la testa.

«Questo chiarisce molte cose.»

«Che cosa vuoi dire? Sai qualcosa?»

«Forse. Tyler, dopo la tua scomparsa, ha sposato Edris Baxter.»

«Capisco... Ora mi è tutto più chiaro.»

Rimase in silenzio per qualche istante.

Subito dopo, Alan riprese: «Senti, Hugh. Non vorrai mica stare qui seduto ad aspettare? Specialmente, dopo avere scoperto che c'è di mezzo Tyler. Dobbiamo farti uscire di qua.»

«E come?»

«Non lo so. Con un atto di forza, forse. Credo di poter raccogliere un certo numero di uomini bene armati e disposti ad aiutarci... Tutti bravi ragazzi, ansiosi di poter usare i loro coltelli.»

«Così, alla fine, saremo tutti pronti per il Convertitore! Tu, io e i tuoi compagni. No, Alan, non è il caso.»

«Ma dobbiamo fare qualcosa! Non possiamo restarcene con le mani in mano ad aspettare che ti decompongano!»

«Lo so.» Hugh studiò la faccia di Alan. Era giusto chiedergli un favore del genere? Ma si sentì rassicurato da ciò che aveva visto. «Senti. Tu faresti qualunque cosa, pur di tirarmi fuori di qua, non è vero?»

«Lo sai bene!» Alan sembrava offeso.

«Molto bene. C'è un nano chiamato Bobo. Ti dirò come devi fare per trovarlo...»

 

Alan salì sempre più in alto, molto più in alto di quanto si fosse mai spinto da quando erano ragazzi e Hugh lo guidava in sconsiderate spedizioni. Era più vecchio ora, più prudente, non gli piaceva farlo. Al pericolo reale di allontanarsi dai livelli inferiori, che ben conosceva, si aggiungevano i timori ispiratigli dalla superstizione. Ma continuava a salire.

Doveva essere arrivato nel luogo indicatogli da Hugh, a meno che avesse sbagliato il conto dei livelli. Ma non scorgeva traccia del nano.

Fu Bobo a vederlo per primo. Un proiettile lanciato da una fionda colpì Alan in pieno stomaco, proprio mentre urlava: «Bobo! Bobo!»

Bobo entrò camminando all'indietro nella cabina di Joe-Jim e scaricò il suo fardello ai piedi del bicefalo.

«Carne fresca» annunciò orgoglioso.

«Vedo» disse Jim con indifferenza. «È tuo. Portalo via.»

Al nano venne l'acquolina in bocca. «È strano» disse. «Conosce il nome di Bobo.»

Joe alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, una raccolta di poesie di Browning, pubblicata dalla L-Press, New York, London, Luna City, cr. 3.50.

«Interessante. Aspetta un momento.»

Hugh aveva preparato Alan allo shock che gli avrebbe procurato la vista di Joe-Jim. Così, in un tempo ragionevolmente breve riuscì a ritrovare la presenza di spirito per dire quello che doveva. Joe-Jim lo ascoltò senza fare molti commenti, Bobo con interesse, ma senza capire granché.

Quando Alan ebbe finito, Jim osservò: «Insomma, avevi ragione tu, Joe. Non ce l'ha fatta.» E, rivolgendosi ad Alan, aggiunse: «Puoi prendere tu il posto di Hoyland. Sai giocare a scacchi?»

Alan guardò prima una testa e poi l'altra.

«Voi non capite!» esclamò. «Non intendete fare nulla per aiutarlo?»

Joe lo guardò perplesso: «Noi? Perché dovremmo?»

«Ma voi dovete farlo. Non vi rendete conto che lui ha bisogno di voi? Non c'è nessun altro a cui possa rivolgersi. Ecco perché sono venuto. Non capite?»

«Un momento» disse Jim con voce strascicata «aspetta un momento. Non correre. Ammettendo che fossimo disposti ad aiutarlo... Come potremmo fare, in nome della Nave di Jordan? Rispondi alla mia domanda!»

«Ma... è semplice...» si mise a balbettare Alan, di fronte a tanta stupidità. «Organizzate una squadra... e scendete a liberarlo!»

«Perché dovremmo farci uccidere in un combattimento per liberare il tuo amico?»

Bobo drizzò le orecchie.

«Combattimento?» chiese eccitato.

«No, Bobo» disse Joe. «Niente combattimenti. Si faceva per dire.»

«Oh» esclamò Bobo e ritornò alla sua inerzia.

Alan guardò il nano.

«Se almeno lasciaste che io e il nano...»

«No» tagliò corto Joe «è fuori discussione. Falla finita con questa storia.»

Alan, preso dallo sconforto, andò a sedersi in un angolo, abbracciandosi le ginocchia. Se solo fosse riuscito ad andarsene di lì. Avrebbe ancora potuto cercare aiuto ai livelli inferiori. Il nano sembrava essersi addormentato, sebbene fosse difficile accertarsene. Se solo si fosse addormentato anche Joe-Jim.

Joe-Jim non sembrava affatto assonnato. Joe provava a continuare la sua lettura, ma Jim di tanto in tanto lo interrompeva. Alan non riusciva a sentire quello che si dicevano.

A un tratto Joe alzò la voce.

«È questa la tua idea di divertimento?» domandò.

«Mah!» disse Jim «è sempre meglio degli scacchi!»

«Figurarsi! E se ti prendi un coltello in un occhio? Che cosa sarebbe di me?»

«Joe, stai invecchiando. Non hai più un filo di coraggio.»

«Tu sei vecchio quanto me!»

«Sì, ma le mie idee rimangono giovani!»

«Oh, mi fai venire la nausea. Comunque, d'accordo, facciamo come vuoi, ma poi non prendertela con me... Bobo!»

Il nano scattò in piedi immediatamente, pronto a entrare in azione.

«Sì, capo!»

«Corri a cercare Mezzo Accovacciato, Lungo Braccio e Porcello.»

Joe-Jim si alzò, aprì un armadio, e cominciò a sfilare i coltelli dalle rastrelliere.

 

Hugh, dalla sua cella, sentì un trambusto nel passaggio. Potevano essere le guardie che venivano a prenderlo per condurlo al Convertitore, ma gli sembrò strano che facessero tanto fracasso. A meno che non si trattasse di qualche avvenimento del tutto estraneo alla sua sorte. Oppure poteva essere...

Lo era. La porta si spalancò di colpo e Alan entrò, gridando e ficcandogli in mano un paio di coltelli. Fu spinto fuori dalla porta mentre si sistemava i coltelli nella cintura e se ne faceva dare altri due.

Fuori vide Joe-Jim che, all'inizio, non si accorse di lui, occupato com'era a lanciare coltelli con la stessa calma metodica che aveva quando si allenava nella sua cabina. Vide anche Bobo, che, a capo chino e sogghignando con la bocca allargata da un taglio sanguinante, continuava senza fatica a caricare la fionda e a tirare proiettili. C'erano altri tre individui, che Hugh riconobbe come sgherri di Joe-Jim, mutanti per definizione e luogo di nascita, ma senza alcuna deformità.

Il suo conteggio non includeva le forme immobili che giacevano sulle lastre del pavimento.

«Presto, andiamo!» urlò Alan. «Ne arriveranno altri, fra pochi istanti.»

E si lanciò correndo verso il passaggio alla loro destra.

Joe-Jim desistette e lo seguì. Hugh scagliò un'ultima lama contro una figura che si allontanava velocemente verso sinistra: era un bersaglio difficile e Hoyland non ebbe tempo di vedere se il colpo fosse andato a segno.

Si arrampicarono lungo il passaggio, Bobo chiudeva la fila, quasi gli dispiacesse lasciare il divertimento, e arrivarono a un punto dove un passaggio secondario incrociava il passaggio principale.

Alan li guidò ancora verso destra. «Le scale di fronte!» urlò.

Ma non fecero in tempo a raggiungerle. Una porta stagna, utilizzata raramente, si chiuse improvvisamente davanti a loro, a una decina di passi dalla scala. I bravi di Joe-Jim si bloccarono e guardarono il loro capo con aria interrogativa. Bobo si spezzò le unghie spesse cercando di trovare un appiglio sulla porta.

Sentivano chiaramente i rumori degli inseguitori dietro di loro.

«Siamo in trappola» disse Joe a bassa voce. «Spero che questo ti diverta, Jim.»

Guardando verso il passaggio da cui provenivano, Hugh vide una testa che spuntava da dietro l'angolo. Lanciò un coltello, ma la distanza era troppo grande: la lama mancò il bersaglio e andò a sbattere contro la paratia metallica. La testa scomparve. Lungo Braccio teneva d'occhio l'angolo, con la fionda carica, pronto a tirare.

Hugh prese Bobo per una spalla: «Ascolta! Vedi quella luce?»

Il nano sbatté le palpebre senza capire. Hugh gli indicò il punto in cui i tubi luminosi si incrociavano, in alto, proprio sopra l'angolo formato dai passaggi.

«Quella luce. Puoi colpire i tubi là dove s'incrociano?»

Bobo misurò la distanza con lo sguardo. Sarebbe stato un colpo difficile in qualunque condizione, data la distanza. Da dove si trovavano, stretti com'erano nel basso passaggio, era indispensabile che il tiro fosse dritto e veloce. Oltretutto, si trovavano in una zona in cui il peso era più alto di quello a cui era abituato.

Il nano non rispose. Hugh sentì lo spostamento d'aria, ma non fece in tempo a vedere il lancio. Ci fu un rumore di vetri infranti, e il passaggio fu avvolto dalle tenebre.

«Ora!» urlò Hugh, e li condusse via di corsa. Mentre si avvicinavano all'incrocio dei passaggi gridò: «Trattenete il respiro! Attenti al gas!» Il vapore radioattivo fuoriusciva dal tubo rotto, in alto, e riempiva i passaggi di una nebbia verdastra. Aveva preso la direzione giusta, il passaggio davanti a loro era buio, poiché era anch'esso servito dal tubo che Bobo aveva rotto. Intorno a sé sentiva rumore di passi, ma non avrebbe potuto dire se provenisse da amici o nemici.

Irruppero in una zona illuminata. Non si vedeva nessuno, all'infuori di un contadino indifeso e spaventato, che corse via a gran velocità. Si passarono rapidamente in rassegna, per controllare di esserci tutti. Nessuno mancava all'appello, ma Bobo si reggeva a fatica.

Joe lo guardò. «Deve avere respirato il gas. Dategli qualche colpo sulla schiena.»

Porcello fu ben lieto di provvedere. Bobo fece un forte rutto, ebbe un repentino conato di vomito e poi sorrise.

«Sta meglio di prima» decise Joe.

Quella breve sosta aveva permesso ad almeno uno degli inseguitori di raggiungerli. Uscì dal buio profondo, senza rendersi conto di che cosa lo aspettava, o forse non curandosene. Alan abbassò il braccio di Porcello, che stava per lanciare il coltello.

«Lascialo a me» disse. «Ho un vecchio conto in sospeso con lui.»

Era Tyler.

«Duello?» lo sfidò Alan, il pollice sulla lama del pugnale.

Gli occhi di Tyler andarono rapidi da un avversario all'altro e, alla fine, accettò l'invito a uno scontro individuale, scagliandosi su Alan. Lo spazio era troppo ristretto per un duello a distanza: i due avversari si avvicinarono, cercando di schivare i colpi, e si afferrarono per i polsi.

Alan aveva una corporatura più massiccia ed era probabilmente più forte, ma Tyler si muoveva con agilità. Tentò di dare una ginocchiata al basso ventre ad Alan, che la evitò, avvinghiandosi a Tyler, ben piantato sui piedi. I due rotolarono al suolo. Si sentì rumore di tessuti lacerati.

Un istante dopo, Alan stava pulendo la lama del coltello contro la coscia. «Andiamocene» disse. «Ho paura.»

Raggiunsero una scala e vi si arrampicarono a tutta velocità, con in testa Porcello e Lungo Braccio che perlustravano i nuovi livelli e coprivano i fianchi, mentre il terzo — quello che Hugh aveva sentito chiamare Mezzo Accovacciato — proteggeva loro le spalle. Gli altri procedevano in gruppo al centro.

Hugh credeva che ormai si trovassero fuori pericolo, quando sentì delle grida e, proprio sopra la sua testa, il sibilo d'un coltello. Raggiunse il livello superiore in tempo per essere ferito solo di striscio da una lama rimbalzata sulla paratia.

Tre uomini giacevano al suolo. Lungo Braccio aveva un coltello conficcato proprio nel braccio, ma sembrava non farci caso. La sua fionda roteava ancora. Porcello cercava di impossessarsi di un coltello rimasto sul terreno, avendo esaurito il suo armamentario. I segni del suo lavoro, però, erano ben visibili: a qualche metro di distanza c'era un uomo in ginocchio, con il sangue che gli grondava da una ferita alla gamba.

L'uomo si appoggiò con una mano alla paratia e con l'altra si frugò nella cintura in cerca di un coltello che non aveva più; in quel mentre Hugh lo riconobbe.

Era Bill Ertz.

Ertz aveva guidato un manipolo di uomini per un'altra via fino a quel livello, ed era caduto in trappola. Bobo si spinse dietro a Hugh e preparò il potente braccio al tiro, ma Hugh lo fermò: «Piano, Bobo» raccomandò. «Nello stomaco, e piano.»

Il nano sembrò stupito, ma obbedì. Ertz si piegò su se stesso e cadde al suolo.

«Bel colpo» disse Jim.

«Prenditelo in spalla, Bobo» ordinò Hugh «e resta nel mezzo.» Passò in rassegna con una rapida occhiata la squadra, riunita in cima alla scala. «Pronti, ragazzi? Si riprende a salire! Tenete gli occhi bene aperti!»

Lungo Braccio e Porcello si arrampicarono sulla scalinata successiva, mentre gli altri ripresero la formazione iniziale. Joe aveva l'aria seccata. In qualche modo — un modo che per il momento gli sfuggiva completamente — era stato esautorato dalla sua posizione di capo della squadra — la sua squadra! — ed era Hugh che impartiva gli ordini. Si disse tuttavia che, al momento, non c'era tempo per protestare. Rischiavano di essere uccisi tutti.

Quanto a Jim, non sembrava affatto contrariato, anzi, apparentemente si divertiva.

Salirono altri dieci livelli, senza incontrare nessuna resistenza. Hugh aveva dato ordine di non uccidere i contadini, se non ce ne fosse stata necessità. I tre sgherri obbedirono; quanto a Bobo, era troppo impegnato a trasportare il corpo di Ertz per creare problemi di disciplina. Solo dopo che si furono lasciati alle spalle altri trenta ponti ed ebbero raggiunto la terra di nessuno, Hugh allentò la vigilanza. Diede l'alt e tutti iniziarono ad esaminare le proprie ferite.

Le sole che meritassero di essere prese sul serio erano quella di Lungo Braccio e quella sulla faccia di Bobo. Joe-Jim le osservò con attenzione e vi applicò dei cerotti di cui s'era rifornito prima di partire per la spedizione. Hugh rifiutò di farsi medicare il piccolo taglio.

«Non sanguina più» insistette. «E poi ho troppo da fare.»

«L'unica cosa che devi fare è tornare nella nostra zona, e porre fine a questa follia» lo rimbeccò Joe.

«Neanche per sogno» replicò Hugh. «Tu, forse, ci tornerai, ma Alan, io e Bobo proseguiamo fin su, al non peso, e alla Veranda del Capitano.»

«Sciocchezze» disse Joe. «A fare che cosa?»

«Vieni anche tu, se ti fa piacere, e te ne renderai conto da solo. Avanti, ragazzi. Andiamo!»

Joe stava per protestare, ma si fermò vedendo che Jim rimaneva in silenzio. Joe-Jim li seguì.

Fluttuarono dolcemente attraverso la porta della Veranda: Hugh, Alan, Bobo, che trasportava ancora il corpo inerte di Ertz sulle spalle, e Joe-Jim.

«Ecco» disse Hugh ad Alan, indicando le splendide stelle con un gesto della mano. «Ecco quello di cui ti ho parlato.»

Alan guardò la volta celeste e afferrò il braccio di Hugh.

«Per Jordan! Precipitiamo!» gemette, chiudendo gli occhi.

Hugh lo scosse. «Va tutto bene» lo rassicurò. «È meraviglioso. Apri gli occhi.»

Joe-Jim toccò il braccio di Hugh. «Si può sapere che cosa intendi fare? E perché hai fatto portare anche quello?» chiese, indicando Ertz.

«Oh, lui?... Quando riprenderà i sensi, voglio fargli vedere le stelle, dimostrargli che la Nave si muove davvero.»

«E perché?»

«Perché allora potrò mandarlo giù a convincere qualcun altro.»

«Uhm!... E chi ti dice che avrà più fortuna di quanta ne abbia avuta tu?

«Mah! In questo caso...» Hugh si strinse nelle spalle «in questo caso dovremo ricominciare tutto da capo, suppongo, finché non li avremo convinti. Abbiamo il dovere di farlo, e tu lo sai.»

 

Bugiardo!

Liar!

di Isaac Asimov

Astounding Science Fiction, maggio

 

 (Ebbi fortuna con questo mio racconto, spremuto dentro, chissà come, nel numero di «Astounding» del maggio 1941, se non altro perché mi trovai in compagnia di giganti, anche se devo confessare che mi faceva paura l'idea di essere in concorrenza con loro.

Liar! (Bugiardo!) era soltanto il quarto racconto che avevo venduto a Campbell, e la seconda storia sui robot positronici che avevo piazzato da lui. La prima era stata Reason. Liar! era anche il primo racconto che John aveva accettato senza chiedere alcun tipo di revisione.

Tuttavia, vorrei che l'avesse fatto. Alcune parti erano dilettantesche in modo imbarazzante, e io le rividi accuratamente nove anni più tardi, quando ritoccai il racconto per includerlo in I, Robot. Qui, tuttavia, per la necessità d'esser leale col lettore, e altresì con l'imperativo storico, il racconto compare così come aveva visto la luce sulla rivista. Se doveste arricciare il naso qua e là, ricordate, per favore, che l'ho scritto quando avevo soltanto vent'anni. - I.A.)

 

Alfred Lanning accese la sigaretta con gesti misurati, ma le punte delle dita tradirono ugualmente un lieve fremito. Le sue grigie sopracciglia s'incurvarono all'ingiù mentre parlava, fra una boccata e l'altra.

«Quello... il pensiero lo legge davvero, non c'è alcun dubbio, dannazione! Ma perché?» guardò il matematico Peter Bogert. «Allora?»

Bogert si lisciò i capelli neri con entrambe le mani. «Lanning, è il trentaquattresimo modello RB che abbiamo sfornato. Tutti gli altri erano rigorosamente ortodossi».

Il terzo uomo seduto al tavolo corrugò la fronte. Milton Ashe era il più giovane dirigente della U.S. Robot & Mechanical Men Inc., ed era molto orgoglioso del suo incarico.

«Senta, Bogert. Non c'è stato un solo intoppo in tutta la catena di montaggio dall'inizio alla fine. Posso garantirlo».

Le grosse labbra di Bogert si allargarono in un sorriso condiscendente. «Davvero? Se può rispondere dell'intera catena di montaggio, la raccomanderò per una promozione. Facendo il conto esatto, ci vogliono settantacinquemiladuecentotrentaquattro operazioni per la fabbricazione del solo cervello positronico, e ogni operazione presa separatamente dipende, per essere compiuta con successo, da un numero di fattori variabile da cinque a centocinque. Se una qualunque di queste operazioni dovesse incepparsi, il "cervello" sarebbe rovinato. Sto semplicemente citando il nostro manuale operativo, Ashe».

Milton Ashe arrossì, ma una quarta voce gli impedì di rispondere:

«Se dobbiamo cominciare a palleggiarci le responsabilità, io me ne vado». Susan Calvin teneva le mani strette in grembo; le piccole rughe intorno alle sue labbra pallide e sottili si accentuarono. «Abbiamo fra le mani un robot capace di leggere il pensiero, e mi sembra molto importante scoprire come lo fa. Non lo scopriremo di certo continuando a star qui, a dirci colpa mia, colpa tua». I suoi freddi occhi grigi si fissarono su Ashe, il quale sorrise.

Anche Lanning sorrise e, come sempre, in simili momenti, i suoi lunghi capelli bianchi e i suoi piccoli occhi furbi lo fecero assomigliare a un antico patriarca biblico: «Ha ragione, dottoressa Calvin».

La sua voce si fece improvvisamente decisa: «Ecco, in pillole concentrate, di che cosa si tratta. Abbiamo prodotto un cervello positronico, modello di serie, che ha la straordinaria capacità di sintonizzarsi sulle onde del pensiero. Sarebbe il più importante progresso nella robotica da molti decenni a questa parte, se sapessimo com'è accaduto. Non lo sappiamo, e dobbiamo scoprirlo. È chiaro?»

«Posso suggerire una cosa?» fece Bogert.

«Dica pure!»

«Direi che, fino a quando non avremo risolto questo pasticcio — e come matematico mi aspetto un pasticcio davvero diabolico — sarà meglio tener segreta l'esistenza di RB-34. Voglio dire, anche agli altri membri del personale. Come capi-reparto, non dovrebbe essere per noi un problema insolubile, e meno persone ne saranno a conoscenza...»

«Bogert ha ragione», dichiarò la dottoressa Calvin, «sin da quando il Codice Interplanetario è stato modificato per consentire che i robot fossero collaudati in fabbrica prima di essere mandati fuori nello spazio, la propaganda anti-robot è aumentata. Se dovesse trapelare la voce di un robot capace di leggere il pensiero prima che noi possiamo annunciare di avere completamente sotto controllo il fenomeno, la notizia potrebbe essere sfruttata molto efficacemente contro di noi».

Lanning tirò un'altra boccata e annuì gravemente. Si rivolse ad Ashe: «Lei non ha forse detto che era solo, quando si è accorto per la prima volta di questa faccenda della lettura del pensiero?»

«Sì, ero solo. E mi sono preso la più grossa paura della mia vita. RB-34 era appena stato tolto dal banco di montaggio e l'avevano mandato giù da me. Obermann era andato da qualche parte, perciò l'ho portato io stesso in sala di prova... o per lo meno, questa era la mia intenzione». Ashe fece una pausa, e un sorriso aleggiò per un attimo sulle sue labbra. «Ditemi, qualcuno di voi ha mai condotto una conversazione mentale senza saperlo?»

Nessuno si preoccupò di rispondere, e lui continuò: «Sulle prime, uno non se ne rende conto, sapete. Mi parlò — sensatamente e logicamente, come potete ben immaginare — e fu soltanto quando fui sceso fin quasi alla sala di prova che mi resi conto di non aver detto parola. Certo, avevo pensato molto, ma non è la stessa cosa, vero? Chiusi a chiave quel coso e mi precipitai da Lanning. L'idea di averlo avuto che camminava al mio fianco, scrutando con calma i miei pensieri, scegliendo liberamente fra essi, mi aveva messo addosso una fifa tremenda».

«Posso immaginarlo», replicò Susan Calvin, soprappensiero. I suoi occhi si fissarono su Ashe con strana intensità. «Noi siamo abituati a considerare i nostri pensieri una faccenda rigorosamente privata».

Lenning interloquì, impaziente: «Allora, soltanto noi quattro ne siamo a conoscenza? Bene! Dobbiamo procedere con ordine. Ashe, voglio che lei controlli la catena di montaggio dall'inizio alla fine... tutto. Elimini tutte le operazioni in cui non vi è nessuna possibilità di errore, e faccia un elenco di quelle in cui la possibilità esiste, insieme al tipo d'errore e alla portata dei suoi effetti».

«Impresa ardua», grugnì Ashe.

«Ovviamente! Lei dovrà farci lavorar sopra i suoi uomini... tutti, se è necessario. E non importa se resteremo indietro coi tempi di produzione. Ma essi non dovranno sapere perché lo fanno, capito?»

«Uhmmm, sì!» Il giovane tecnico ebbe un sorriso agro, «ma è pur sempre un lavoraccio».

Lanning si girò verso Susan Calvin. «Lei dovrà affrontare il problema da un'altra direzione. È la robotpsicologa della fabbrica, perciò dovrà studiare quel robot e procedere a ritroso. Cerchi di scoprire come funziona, se vi è qualcos'altro collegato ai suoi poteri telepatici, fin dove questi si estendono, ed esattamente in che modo abbiano alterato il suo comportamento e danneggiato le sue normali capacità di RB. Tutto chiaro?» Lanning non attese la risposta della dottoressa Calvin. «Io coordinerò il lavoro e interpreterò matematicamente i risultati». Tirò un'energica boccata e borbottò il resto attraverso il fumo: «In questo mi aiuterà Bogert, naturalmente».

Bogert si lucidò le unghie di una mano grassoccia col palmo dell'altra, e osservò a bassa voce: «Ritengo di saper qualcosa in proposito».

«Bene! Io comincio subito». Ashe spinse indietro la sua sedia e si alzò. Un sogghigno alterò il suo bel volto giovanile. «Mi tocca il lavoro peggiore fra tutti, perciò me ne vado e mi metto immediatamente all'opera».

E scomparve biascicando un «Ci vediamo!»

Susan Calvin gli rispose con un cenno del capo appena percettibile, ma i suoi occhi lo seguirono finché non fu uscito, e non rispose a Lanning quando questi grugnì e le disse: «Vuol salire subito a esaminare RB-34, dottoressa Calvin?»

 

Gli occhi fotoelettrici di RB-34 si alzarono dal libro al lieve rumore dei cardini che giravano, e quando Susan Calvin entrò era già in piedi.

La robotpsicologa indugiò un attimo a rimettere a posto il vistoso cartello «Vietato l'ingresso» sull'esterno della porta, poi si avvicinò al robot.

«Ti ho portato i testi sui motori iperatomici, Herbie... qualcuno, ad ogni modo. Vorresti darci un'occhiata?»

RB-34 — altrimenti noto come Herbie — prelevò dalle braccia di lei i tre massicci volumi, ne aprì uno e lesse il frontespizio:

«Mmm...! "Teoria degli Iperatomici"». Borbottò fra sé vaghi suoni inarticolati mentre sfogliava le pagine, poi disse con voce distratta: «Si sieda, dottoressa Calvin. Mi ci vorranno alcuni minuti».

La psicologa si sedette e osservò attentamente Herbie mentre questi prendeva posto all'altro lato del tavolo, mettendosi a scorrere sistematicamente i tre volumi.

Dopo circa mezz'ora li mise giù: «Naturalmente so perché me li ha portati».

L'angolo della bocca della dottoressa Calvin si contrasse: «Lo temevo. È difficile lavorare con te, Herbie. Mi precedi sempre d'un passo».

«È lo stesso con questi libri, sa?, come con gli altri. Semplicemente, non m'interessano. Non c'è niente in questi trattati. La vostra scienza è soltanto una massa di dati raccolti alla bell'e meglio e incollati insieme da teorie improvvisate... tutte così incredibilmente semplici che non varrebbe quasi la pena di perderci del tempo sopra. È la vostra narrativa che m'interessa. I vostri studi sulle emozioni e i moventi umani». La sua mano possente gesticolò nell'aria mentre cercava le parole adatte.

La dottoressa Calvin bisbigliò: «Credo di capire».

«Io leggo nelle vostre menti, capisce?» continuò il robot, «e lei non ha idea di quanto siano complicate. Non riesco ancora a capire tutto perché la mia mente ha così poco in comune con esse... ma mi sto sforzando, e i vostri romanzi mi sono di aiuto».

«Sì, ma temo che dopo esserti immerso in qualcuna delle più strazianti esperienze emotive dei nostri romanzi sentimentali d'oggi...» c'era una punta di amarezza nella sua voce, «troverai che le nostre menti, quelle vere, sono monotone e incolori».

«Non la sua!»

La violenza improvvisa di questa risposta fece balzare in piedi la donna. Susan Calvin si sentì arrossire e pensò, sconvolta: «Deve saperlo!»

Herbie si acquietò all'improvviso e borbottò, con una voce dalla quale ogni timbro metallico era scomparso quasi del tutto: «È naturale che io lo sappia, dottoressa Calvin. Lei ci pensa sempre, perciò, come potrei non saperlo?»

Il volto di lei si era fatto duro. «L'hai detto a... qualcuno?»

«Naturalmente no!» Herbie lo disse con genuina sorpresa, «nessuno me l'ha chiesto».

«Bene, allora», lei esclamò, «suppongo che tu pensi che io sia una sciocca».

«No! È un'emozione normale».

«Forse è per questo che è così sciocca». L'ansia nella sua voce copriva qualunque altra cosa. Un po' della donna che era in lei fece capolino attraverso il suo scudo dottorale. «Io non sono quella che tu definiresti una donna... attraente».

«Se si riferisce alla pura attrattiva fisica, io non sono in grado di giudicare. Ma so, in ogni caso, che vi sono altri tipi di attrazione».

«...né giovane». La dottoressa Calvin non aveva neppure ascoltato il robot.

«Non ha ancora quarant'anni». Un'ansiosa insistenza si era insinuata nella voce di Herbie.

«Trentotto, contando gli anni puri e semplici; ma una vecchia avvizzita di sessanta per quanto riguarda la mia situazione emotiva. Non per niente sono una psicologa». E proseguì in tono amaro, senza neppure riprendere il fiato: «E lui ne ha appena trentacinque e ne mostra e si comporta come se ne avesse parecchi di meno. Credi forse che mi veda diversamente da quella... da quella che sono?»

«Si sbaglia!» Il pugno d'acciaio di Herbie colpì la superficie di plastica del tavolo con un tonfo stridente. «Mi ascolti...»

Ma a questo punto Susan Calvin si girò con veemenza verso di luì e l'ossessiva sofferenza infiammò i suoi occhi: «Perché dovrei? Ad ogni modo che cosa puoi saperne tu, che sei una... una macchina, di tutto questo? Per te io sono soltanto un esemplare, un insetto interessante con una strana mente, disteso sul tavolo per farsi esaminare. È un interessantissimo caso di frustrazione, non è vero? Buono quasi quanto quelli dei tuoi romanzi». La sua voce, che si era fatta strada fra rauchi singhiozzi, adesso si spense.

Il robot si ritrasse, davanti alla violenza di quello sfogo. Scosse la testa implorante. «Vuole ascoltarmi, per favore? Potrei aiutarla, se lei volesse».

«E come?» Ella storse la labbra. «Dandomi dei buoni consigli?»

«No, non questo. È che io so... so quello che pensano gli altri, Milton Ashe, per esempio».

Vi fu un lungo silenzio, poi Susan Calvin abbassò bruscamente gli occhi.

«Non voglio sapere ciò che pensa», rantolò,»stai zitto».

«Io credo invece che lei voglia sapere ciò che pensa».

Susan Calvin continuò a tenere la testa china, ma il suo respiro si fece più rapido. «Stai dicendo delle assurdità», bisbigliò.

«Perché dovrei? Sto cercando di aiutarla. Ciò che Milton Ashe pensa di lei...» Il robot s'interruppe.

La psicologa alzò la testa: «Allora?»

Il robot disse, tranquillo: «Ashe l'ama».

Per un intero minuto la dottoressa Calvin non parlò, limitandosi a fissare il robot. Poi: «Ti stai sbagliando! Devi sbagliarti. Perché dovrebbe?»

«Ma è così. Una cosa come questa non può essere nascosta. Non a me».

«Ma io sono così... così...» e si fermò, balbettando.

«Lui guarda sotto la pelle e ammira soprattutto l'intelligenza. Milton Ashe non è il tipo che sposa una chioma fluente o un paio di begli occhi».

Susan Calvin ammiccò più volte, e respirò parecchie volte prima di replicare. E lo fece con voce tremula: «Eppure, sono certa che lui non ha mai mostrato di...»

«Gliene ha mai dato la possibilità?»

«Come avrei potuto? Non ho mai pensato che...»

«Proprio così!»

La psicologa indugiò soprappensiero, poi sollevò all'improvviso gli occhi: «Circa sei mesi fa una ragazza gli ha fatto visita, qui in fabbrica. Era graziosa, sì... bionda e snella. E naturalmente, non era neppure capace di sommare due più due. Ashe passò tutta la giornata con lei, facendo la ruota come un pavone, cercando di spiegarle come veniva messo assieme un robot». La sua voce era tornata a farsi dura: «Non che lei ne capisse niente, è ovvio. Chi era?»

Herbie rispose senza esitazione: «Conosco la persona alla quale lei sì riferisce. È la sua prima cugina, e lì non c'è alcun interesse romantico, glielo posso garantire».

Susan Calvin si alzò in piedi con vivacità quasi fanciullesca. «Ma è strano. È proprio quello che, a volte, fingevo con me stessa, anche se non ho mai creduto che fosse davvero così. Ma allora... dev'essere tutto vero».

Corse da Herbie e gli afferrò le mani fredde e pesanti: «Grazie, Herbie». La sua voce era un rauco, fremente bisbiglio. «Non dirlo a nessuno, lascia che sia un nostro segreto... e, grazie, ancora grazie!» Con un'ultima stretta convulsa alle dita metalliche di Herbie, se ne andò.

Herbie si voltò lentamente verso il romanzo che aveva poco prima interrotto, ma non c'era nessuno che potesse leggere i suoi pensieri.

 

Milton Ashe si stiracchiò con voluttuosa lentezza, accompagnando il tutto col crepitio delle giunture e un borbottio soddisfatto, poi fissò Peter Bogert, dottore in matematica.

«Senta», disse, «è già una settimana che ci lavoro, praticamente senza dormire. Per quanto ancora devo continuare? Non aveva detto che la soluzione stava nel bombardamento positronico nella Camera a Vuoto D?»

Bogert sbadigliò educatamente e contemplò con improvviso interesse le sue candide mani.

«Proprio così. Sono sulla pista giusta».

«So che cosa vuol dire questo quando lo afferma un matematico. Quanto è vicino alla meta?»

«Dipende».

«Da che cosa?» Ashe si lasciò cadere su una poltrona.

«Da Lanning. Il vecchio non è d'accordo con me». Sospirò. «È un po' indietro coi tempi, questo è il suo guaio. Si aggrappa alla meccanica delle matrici come se non ci fosse altro, ma questo specifico problema richiede strumenti matematici assai più potenti. È talmente cocciuto».

Ashe borbottò, semiappisolato: «Perché non lo chiediamo a Herbie e non sistemiamo così tutta la faccenda?»

«Chiederlo al robot?» Le sopracciglia di Bogert schizzarono all'insù.

«E perché no? La vecchia zitella non gliel'ha detto?»

«Vuol dire la Calvin?»

«Già! Susie in persona. Quel robot è un mago della matematica. Sa tutto di tutto, e perfino qualcosa di più. Sa calcolare nella sua testa gli integrali tripli e si mangia l'analisi tensoriale come dessert».

Il matematico lo fissò con aria scettica: «Sta parlando seriamente?»

«Altro che! Il guaio è che a quello stupido la matematica non piace. Preferisce leggere romanzi svenevoli. Davvero! Dovrebbe vedere le idiozie sentimentali che Susie continua a dargli in pasto: "Passione scarlatta" e "Amore nello spazio"».

«La dottoressa Calvin non ci ha detto una sola parola di tutto questo».

«Be', non ha ancora finito di studiarlo. Lei sa com'è. Le piace avere tutto in mano, prima di rivelare il grande segreto».

«Ma l'ha detto a lei».

«Abbiamo chiacchierato un po'. L'ho vista parecchio, in questi ultimi tempi». Ashe sgranò gli occhi e aggrottò la fronte: «Senta, Bogie, non ha notato niente di strano in quella donna, ultimamente?»

Bogert si lasciò andare contro lo schienale, esibendo un sorriso ben poco dignitoso: «Ha cominciato a mettersi il rossetto, se è questo che intende».

«Diavolo, se non è questo! Rossetto, cipria, e anche l'ombretto. È uno spettacolo. Ma non è tutto qui. C'è qualcos'altro che non riesco ad afferrare. È il modo in cui parla... come se fosse felice per qualcosa». Rifletté ancora per qualche istante, poi scrollò le spalle.

L'altro si concesse un'occhiata maliziosa che, per uno scienziato ormai oltre la cinquantina, non era affatto mal riuscita: «Forse è innamorata».

Ashe lasciò che i suoi occhi tornassero a chiudersi: «Lei è matto, Bogie. Vada a parlare con Herbie. Io me ne starò qui... anzi, andrò a dormire».

«Bene! Non sono molto entusiasta all'idea che un robot m'insegni il mio lavoro... non che io lo creda possibile, s'intende!»

Come tutta risposta, ebbe il sommesso russare di Ashe.

 

Herbie ascoltò con attenzione, mentre Peter Bogert gli parlava con studiata indifferenza, le mani infilate in tasca.

«Perciò, ecco qua. Mi è stato detto che tu, queste cose, le capisci, e io te le chiedo, più che altro, per curiosità. Il mio ragionamento, così come l'ho esposto, comporta alcuni punti dubbi che, lo ammetto, il dottor Lanning si rifiuta di accettare, e il quadro è ancora alquanto incompleto».

Il robot non rispose, e Bogert fece: «Allora?»

«Non vedo alcun errore». Herbie stava studiando le cifre scarabocchiate.

«Tu sapresti andare oltre?»

«Non oso tentare. Lei è un matematico assai migliore di me e... be', non voglio compromettermi».

C'era una sfumatura compiaciuta nel sorriso di Bogert: «Immaginavo che le cose stessero così. Questa è alta matematica. Be', lasciamo perdere». Accartocciò i fogli, li buttò nell'inceneritore, si voltò per uscire, poi ci ripensò.

«A proposito...»

Il robot attese.

Bogert parve in difficoltà. «C'è qualcosa... cioè, forse tu potresti...» Si fermò.

Herbie interloquì, senza scomporsi: «I suoi pensieri sono confusi, ma non vi è alcun dubbio che essi riguardano il dottor Lanning. Lei si sta comportando da sciocco: non appena si sarà calmato, io saprò ciò che vuol chiedermi».

Il matematico alzò una mano, lisciandosi istintivamente i capelli. «Lanning è vicino ai sessanta», disse, come se questo spiegasse tutto.

«Lo so».

«Ed è direttore della fabbrica da quasi trent'anni». Herbie annuì.

«Bene, dunque», la voce di Bogert si fece invitante, «tu non sai, per caso, se... se non stia pensando di dimettersi? Per ragioni di salute, sì, o per qualcos'altro...»

«Già», disse Herbie, e fu tutto.

«Allora, lo sai?»

«Certamente».

«E non... uh... non potresti dirmelo?»

«Dal momento che me l'ha chiesto, sì». Herbie fu esplicito in modo quasi brutale. «Ha già dato le dimissioni!»

«Cosa?» L'esclamazione fu un suono esplosivo, quasi inarticolato. La grossa testa dello scienziato si protese di scatto in avanti: «Dillo di nuovo!»

«Ha già dato le dimissioni», fu la placida ripetizione, «ma queste non sono ancora diventate effettive. Aspetta, vede, che sia risolto il problema di... ehm... di me stesso. Quando questa faccenda sarà risolta, è pronto a lasciare l'incarico di direttore al suo successore».

Bogert cacciò un sospiro quasi esplosivo: «E questo successore, chi è?» Era vicinissimo a Herbie, adesso, i suoi occhi fissavano affascinati quelle imperscrutabili cellule fotoelettriche rosso-opache che costituivano gli organi visivi del robot.

Le parole di Herbie uscirono lente: «È lei il prossimo direttore».

Bogart si rilassò, pur sorridendo a labbra strette: «Fa piacere saperlo. Avevo atteso e sperato che ciò accadesse. Grazie, Herbie».

 

Peter Bogert restò tutta la notte alla sua scrivania, fino alle cinque del mattino, e alle nove era già di ritorno. Lo scaffale accanto alla sua scrivania si vuotò rapidamente dei vari testi di consultazione e dei manuali logaritmici, man mano li afferrava e li sfogliava. Le pagine di calcoli crescevano con lentezza esasperante davanti a lui mentre i fogli spiegazzati ai suoi piedi si accumularono fino a formare una piccola collina.

A mezzogiorno in punto, fissò l'ultima pagina, si sfregò un occhio iniettato di sangue, sbadigliò e scrollò le spalle. «Di male in peggio a ogni minuto che passa, dannazione!»

Si girò al rumore della porta che si apriva e annuì in direzione di Lanning, il quale entrò facendo crocchiare le nocche delle sue dita nodose. Il direttore valutò il disordine della stanza e corrugò le sopracciglia.

«Una nuova pista?» chiese.

«No», gli rispose Bogert, in tono di sfida, «Che cosa c'è di sbagliato in quella vecchia?»

Lanning non si preoccupò di rispondere, né di dedicare più di una frettolosa occhiata al foglio che si trovava in cima agli altri sulla scrivania di Bogert. Parlò attraverso la fiammella di un cerino, mentre si accendeva un sigaro.

«La Calvin le ha parlato del robot? È un genio della matematica. Davvero straordinario».

Bogert sbuffò rumorosamente: «L'ho sentito dire. Ma la Calvin farebbe meglio a impicciarsi soltanto della sua robotpsicologia. Ho controllato le capacità matematiche di Herbie, e non riesce a fare neppure i calcoli più semplici».

«La Calvin non l'ha trovato così».

«È matta».

«E neppure io l'ho trovato così». Gli occhi del direttore si socchiusero pericolosamente.

«Lei!» La voce di Bogert s'indurì. «Di che cosa sta parlando?»

«Ho messo io stesso alla prova Herbie tutta la mattina, e riesce a far cose di cui lei neppure s'immagina».

«Proprio?»

«Mi sembra scettico». Lanning tirò fuori dal giubbotto un foglio di carta e lo spiegò. «Questa non è la mia calligrafia, vero?»

Bogert studiò la fitta scrittura angolosa che copriva il foglio: «È stato Herbie a farlo?»

«Esatto. E vorrà notare che ha lavorato sulla sua integrazione temporale della ventiduesima equazione. Ed è arrivato», Lanning puntò un'unghia giallognola sull'ultimo passaggio, «alla mia identica conclusione, impiegandoci un quarto del tempo. Lei non doveva trascurare, come ha fatto, l'effetto Linger nel bombardamento positronico».

«Non l'ho affatto trascurato. Per l'amor del cielo, Lanning, non vuol capire che esso annullerebbe...»

«Oh, certo, me l'ha spiegato. Lei ha usato l'equazione traslatoria di Mitchell, non è vero? Bene, in questo caso non si applica».

«Perché no?»

«Tanto per cominciare, lei si è servito delle iper-immaginarie».

«E questo, che c'entra?»

«L'equazione di Mitchell non regge quando...»

«È matto? Vada a rileggersi la relazione originale di Mitchell negli Atti della Associazione Farad...»

«Non serve. Gliel'avevo detto che non mi piaceva il suo modo di ragionare, ed Herbie mi ha dato ragione su questo punto».

«Bene, allora», urlò Bogert, «lasci pure che quel macinino a molla le risolva il problema. Perché preoccuparsi di queste sciocchezze?»

«È proprio questo il punto. Herbie non può risolvere il problema. E se lui non può, neanche noi possiamo... da soli. Sto per sottoporre tutta la questione al Centro Nazionale. Il problema è ormai oltre la nostra portata».

La sedia di Bogert si rovesciò all'indietro quand'egli balzò in piedi ringhiando, paonazzo in volto: «Lei non farà niente di simile!»»

Lanning divenne rosso a sua volta: «Vuol forse insegnare a me quello che posso o non posso fare?»

«Esattamente», la risposta fu digrignata tra i denti. «Io ho risolto il problema, e non sarà lei a togliermelo dalle mani, capito? Non creda che io non abbia capito le sue intenzioni, vecchio fossile disseccato. Lei sarebbe disposto a tagliarsi il naso, prima di consentire che mi sia attribuito il merito di aver risolto la telepatia robotica!»

«Lei è un dannato idiota. Bogert, e nel giro di un secondo la farò sospendere per insubordinazione». Il labbro inferiore di Lanning tremava per l'ira.

«E lei, invece, non lo farà, Lanning. Lei non può avere alcun segreto, con intorno quel robot capace di leggere il pensiero, perciò non dimentichi che io so tutto sulle sue dimissioni».

La cenere del sigaro di Lanning tremò e cadde; il sigaro la seguì subito dopo. «Cosa... Come...»

Bogert ridacchiò con cattiveria: «E io sono il nuovo direttore, sia ben chiaro. Lo so. Non creda che non lo sappia. Dannazione a lei, Lanning, d'ora in poi darò io gli ordini, qui, o scoppierà il peggior pasticcio che le sia mai capitato».

Lanning ritrovò la sua voce ed esplose in un ruggito: «Lei è sospeso, mi ha sentito? È sollevato dai suoi incarichi. È rovinato, ha capito?»

Il sorriso sul volto di Bogert si allargò: «A che cosa serve, questo? Non otterrà nessun risultato. Ho io gli assi. Io so che lei ha dato le dimissioni. Me l'ha detto Herbie, che l'ha saputo direttamente da lei».

Lanning si sforzò di parlare con calma. Appariva tremendamente vecchio, i suoi occhi stanchi lo fissavano da un volto dal quale ogni rossore era scomparso, lasciando il posto al pallore pergamenaceo dell'età. «Voglio parlare con Herbie. Non può averle detto niente di simile. Lei sta bluffando, Bogert, ma intendo scoprire il suo bluff. Venga con me.

Bogert scrollò le spalle: «A parlare con Herbie? Bene! Dannatamente bene!»

 

Fu a mezzogiorno esatto che Milton Ashe alzò gli occhi dal suo maldestro abbozzo, e disse: «Ha capito l'idea? Non sono molto bravo a disegnarla, ma è più o meno così. È un tesoro di casa, e posso averla quasi per niente».

Susan Calvin lo fissò con due occhi sognanti: «È davvero bella», sospirò, «ho spesso pensato che mi piacerebbe...» La sua voce si spense.

«Naturalmente», proseguì Ashe in tono vivace, mettendo via la matita, «dovrò aspettare le mie ferie. Mancherebbero soltanto due settimane, ma questa faccenda di Herbie ha mandato tutto all'aria». Si fissò le unghie. «Inoltre, c'è un'altra cosa... ma è un segreto».

«Allora non me lo dica».

«Oh, non ne vedo l'ora, scoppio dalla voglia di dirlo a qualcuno, e lei... sì, lei è la miglior confidente che io possa trovare qui». Sorrise impacciato.

Il cuore di Susan Calvin ebbe un sobbalzo, ma lei non ebbe il coraggio di parlare.

«In tutta sincerità», Ashe si spostò più vicino con la sedia e abbassò la voce fino a un bisbiglio confidenziale, «la casa non è destinata soltanto a me. Sto per sposarmi!»

E subito dopo balzò in piedi: «Che cosa succede?»

«Niente». L'orribile sensazione di vertigine era scomparsa, ma le era difficile spiccicar parola. «Lei sta per sposarsi? Vuol dire...»

«Ma sì, certo! Era ora, non le pare? Ricorda quella ragazza che è venuta qui l'estate scorsa? Sarà mia... Ma lei sta male. Lei...»

«Una forte emicrania!» Susan Calvin gli fece debolmente segno di scostarsi. «Ultimamente... ne vado soggetta. Desidero... desidero congratularmi con lei, naturalmente. Ne sono molto lieta...» Il belletto applicato con mano inesperta formava un paio di chiazze rosse sul suo viso bianco come il gesso. La testa aveva ricominciato a girarle. «Mi scusi... per favore...»

Continuò a parlare, in un mormorio indistinto, mentre usciva barcollando dalla stanza. Tutto era accaduto con la catastrofica fulmineità d'un sogno... e con tutto l'orrore irreale di un sogno.

Ma come poteva essere? Herbie aveva detto...

E Herbie lo sapeva! Poteva leggere il pensiero!

Si trovò appoggiata, ansante, allo stipite, intenta a fissare la faccia metallica di Herbie. Doveva aver salito due rampe di scale, ma non ne serbava alcun ricordo. Le sembrò di aver percorso quella distanza in un istante, come un sogno.

Come un sogno!

E gli occhi immobili di Herbie continuavano a fissare i suoi, e il loro rosso opaco sembrò espandersi in due globi che rilucevano fiochi, come un incubo.

Il robot stava parlando. Lei percepì il freddo del bicchiere premuto contro le sue labbra. Inghiottì e rabbrividì, riacquistando sia pure in parte la consapevolezza dell'ambiente in cui si trovava.

E Herbie continuava a parlare, e la sua voce tradiva una viva agitazione... quasi che fosse ferito e spaventato, e che l'implorasse. Le parole cominciavano ad acquistare un senso. «Questo è un sogno», lui stava dicendo, «e lei non deve crederci. Ben presto lei si sveglierà nel mondo reale e riderà di se stessa. Lui l'ama, glielo dico io. L'ama. L'ama! Ma non qui... non adesso! Questa è un'illusione».

Susan Calvin annuì, la sua voce ridotta a un bisbiglio: «Sì! Sì». Stava stringendo il braccio di Herbie, vi si aggrappava, ripetendo continuamente: «Non è vero... davvero?... Davvero, non è vero... non...»

Non seppe mai come avesse ripreso i sensi... ma fu come passare da un mondo di nebbiosa irrealtà a uno di vivida, spietata luce solare. Lo spinse via da sé, spinse via con forza quel braccio d'acciaio, gli occhi sgranati.

«Che cosa stai cercando di fare?» La sua voce crebbe fino a un urlo stridente. «Che cosa stai cercando di fare?»

Herbie arretrò: «Voglio essere di aiuto».

La psicologa lo fissò: «Essere di aiuto? Dicendomi che questo è un sogno? Cercando di spingermi alla schizofrenia?» Si sentì investire da un accesso d'isterismo: «Questo non è un sogno... vorrei che lo fosse!»

Tirò un profondo, rauco respiro: «Aspetta! Ebbene... sì, capisco. Cielo misericordioso, è così ovvio».

C'era orrore nella voce del robot: «Dovevo farlo!»

«E io ti ho creduto! Non avrei mai pensato...»

Un clamore di voci, appena fuori della porta, l'interruppe. Susan Calvin si scostò, con i pugni stretti spasmodicamente, e quando Bogert e Lanning entrarono, si trovava accanto alla finestra sul lato opposto. Ma nessuno dei due le prestò la minima attenzione e si avvicinarono simultaneamente a Herbie, Lanning rabbioso e impaziente, Bogert freddo e sardonico. Il direttore parlò per primo.

«Vieni qui, Herbie, e ascoltami!»

Il robot puntò i suoi occhi acuti sull'anziano direttore: «Sì, dottor Lanning».

«Hai parlato di me col dottor Bogert?»

«No, signore». La risposta giunse con lentezza, quasi con fatica. Il sorriso sul volto di Bogert si spense.

«Cosa?» Bogert oltrepassò il suo superiore e si piantò a gambe larghe davanti al robot. «Ripeti quello che mi hai detto ieri».

«Ho detto che...» Herbie si azzittì. Nelle profondità della sua struttura, il diaframma metallico vibrò con una sommessa discordanza.

«Non mi hai forse detto che aveva dato le dimissioni?» ruggì Bogert. «Rispondi!»

Sollevò freneticamente un braccio, ma Lanning lo spinse da parte: «Sta forse cercando d'intimorirlo per farlo mentire?»

«Lo ha sentito, Lanning. Ha cominciato a dire "Sì" e poi si è fermato. Si tolga di mezzo. Voglio la verità da lui, capisce?»

«Gliela chiederò io!» Lanning ripeté, con ansia crescente: «Ho dato le dimissioni?» Vi fu un debolissimo negare col capo da parte del robot. Una lunga attesa non produsse altri risultati.

I due uomini si guardarono. L'ostilità nei loro occhi era più che tangibile.

«Che diavolo», sbottò Bogert, «il robot è forse diventato muto?... Non puoi più parlare, mostro che non sei altro!»

«Posso parlare», fu l'immediata risposta.

«Allora rispondi alla domanda. Non mi avevi forse detto che Lanning aveva dato le dimissioni? Le ha date o no, queste dimissioni?»

Ma ancora una volta non ci fu nulla, soltanto un silenzio teso e imbarazzato, fin quando dall'estremità opposta della stanza non risuonò all'improvviso la risata di Susan Calvin, stridula e quasi isterica.

I due matematici sobbalzarono. Gli occhi di Bogert si strinsero: «Lei qui? Che cosa c'è di così divertente?»

«Non c'è niente di divertente». La sua voce vibrava d'una innaturale tensione. «Soltanto, io non sono stata l'unica a cascarci. Non è ironico il fatto che i tre più grandi esperti di robotica del mondo siano finiti nella stessa trappola elementare?» La sua voce si affievolì; si portò una mano alla fronte. «No, non è divertente!»

La rapida occhiata che, ora, i due uomini si scambiarono fu più sbalordita che infuriata. «Di che trappola sta parlando?» chiese Lanning, rigido. «C'è qualcosa che non va, in Herbie?»

«No». Si avvicinò lentamente. «Non c'è niente di sbagliato in lui. Soltanto in noi». Si girò di scatto e gridò al robot: «Allontanati da me! Vai laggiù, in quell'angolo, non voglio vederti!»

Herbie si ritrasse davanti al suo sguardo infuriato e, sferragliando, si allontanò con rapido passo.

La voce di Lanning suonò ostile: «Che cos'è tutta questa storia, dottoressa Calvin?»

La robotpsicologa li fronteggiò e parlò in tono sarcastico: «Certamente conoscerete la prima legge della robotica?»

I due annuirono insieme. «Certamente», disse Bogert, irritato, «un robot non può recar danno a un essere umano o consentire, a causa del suo non-intervento, che un uomo subisca danno».

«Ben formulato», lo schernì Susan Calvin, «ma che genere di danno?»

«Sì... dunque, un danno di qualunque tipo».

«Esattamente: un danno di qualunque tipo! E i sentimenti feriti? Lo sminuire l'ego di qualcuno? La distruzione delle sue speranze? Sono danni questi?»

Lanning si accigliò: «Che cosa ne può sapere un robot di...» E s'interruppe con un rantolo.

«C'è arrivato, vero? Questo robot legge il pensiero. Credete che non sappia nulla di danni mentali? Credete che, se gli si fa una domanda, lui non dia esattamente la risposta che uno vuol sentire? Qualunque altra risposta lo ferirebbe, e Herbie io sa!»

«Cielo!» bofonchiò Bogert.

La psicologa gli rivolse un'occhiata sardonica: «Presumo che lei gli abbia chiesto se Lanning aveva dato le dimissioni. Lei voleva sentirsi dire che Lanning si era dimesso, ed Herbie, appunto, gliel'ha detto».

«E io credo che sia appunto per questo», mormorò lentamente Lanning, «che poco fa non ha voluto rispondere. Non poteva rispondere né in un modo, né nell'altro, senza ferire uno di noi due».

Vi fu un breve silenzio, durante il quale i due uomini fissarono pensierosi il robot sull'altro lato della stanza, rannicchiato su una seggiola accanto alla libreria, la testa appoggiata su una mano.

Susan Calvin stava fissando il pavimento: «Sapeva di tutto questo. Quel... quel demonio sa tutto... compreso quello che è andato storto nel suo montaggio». I suoi occhi erano cupi.

Lanning la guardò: «Su questo punto lei si sbaglia, dottoressa Calvin. Lui non sa che cos'è andato storto. Gliel'ho chiesto».

«E questo che cosa significa?» gridò la Calvin. «Significa soltanto che lei non voleva che lui le desse la soluzione. Se una macchina fosse riuscita a fare ciò che a lei non era riuscito, ciò sarebbe stato disastroso per il suo ego. E lei, gliel'ha chiesto?» domandò, rivolgendosi con veemenza a Bogert.

«In un certo senso». Bogert tossì e arrossì. «Mi ha detto di saperne assai poco di matematica».

Lanning produsse una risatina sommessa, e la psicologa ebbe un sorriso agro. Ed esclamò: «Glielo chiederò io! Una soluzione data da lui non danneggerà il mio ego». Alzò la voce e in tono gelido e imperioso gli ordinò: «Vieni qui!»

Herbie si alzò in piedi e si avvicinò con passo esitante.

«Io penso che tu sappia esattamente», continuò lei, «a quale punto del montaggio è stato introdotto un fattore estraneo, oppure ne è stato omesso uno di essenziale».

«Sì», disse Herbie, con un filo di voce.

«Un momento», intervenne rabbiosamente Bogert, «non è necessariamente vero. È lei che vuole sentirglielo dire. È tutto qui».

«Non sia sciocco», replicò la Calvin. «Certamente Herbie conosce tanta matematica quanta lei e Lanning messi insieme, dal momento che può leggere nel pensiero. Gli dia una possibilità».

Il matematico si calmò e Susan Calvin continuò: «Va bene, Herbie, parla! Stiamo aspettando». E si concesse una battuta: «Procuratevi carta e matita, signori».

Ma Herbie restò silenzioso, e vi era una nota trionfante nella voce della psicologa: «Perché non rispondi, Herbie?»

Il robot sbottò all'improvviso: «Non posso. Lei sa che non posso! Il dottor Bogert e il dottor Lanning non vogliono che lo faccia».

«Loro vogliono la soluzione»,

«Non da me».

Lanning intervenne, parlando lentamente e scandendo le parole: «Non essere sciocco, Herbie. Vogliamo che tu ce lo dica».

Bogert annuì brevemente.

La voce di Herbie s'innalzò a livelli incontrollati: «A che serve dirmi questo? Non pensate che io posso vedere al di là dello strato superficiale delle vostre menti? Nel vostro intimo, voi non volete che io lo faccia. Io sono una macchina alla quale è stata data un'imitazione di vita soltanto in virtù delle interazioni positroniche nel mio cervello... che è un congegno costruito dall'uomo. Non potete perdere la faccia davanti a me senza restar feriti. Tutto ciò è nel profondo delle vostre menti, e non può essere cancellato. Non posso darvi la soluzione».

«Allora ce ne andremo», disse il dottor Lanning, «e tu la dirai alla dottoressa Calvin».

«Questo non farebbe alcuna differenza», gridò Herbie, «dal momento che voi sapreste ugualmente che la risposta l'ho data io».

Susan Calvin riprese: «Ma tu capisci, Herbie, che malgrado ciò il dottor Lanning e il dottor Bogert vogliono quella soluzione».

«Ma essi vogliono ottenerla grazie ai loro sforzi!» insisté Herbie.

«Ma essi la vogliono in ogni caso, e il fatto che tu la conosca e non voglia dirla gli fa del male. Lo capisci, non è vero?»

«Sì! Sì!»

«Ma se gliela dici, anche questo gli farà del male».

«Sì! Sì!» Herbie lentamente arretrava, e Susan Calvin, un passo dopo l'altro, avanzava. I due uomini guardavano la scena, paralizzati dallo stupore.

«Tu non puoi dirglielo», continuò a dire con voce lenta e monotona la psicologa, «poiché questo gli farebbe del male e tu non puoi fare del male. Ma se non glielo dirai gli farai del male, perciò devi dirglielo. E se lo dirai, gli farai del male e non devi, perciò non puoi dirglielo; ma se non lo dici, gli fai del male, perciò devi; ma se lo dici gli fai del male, perciò non devi; ma se non lo dici, gli fai del male, perciò devi; ma se lo dici, gli...»

Herbie si era addossato alla parete, e a questo punto cadde in ginocchio. «Basta!» strillò. «Chiuda la sua mente! È piena di dolore, frustrazione e odio! Non volevo farlo, le dico! Ho cercato di aiutarla! Le ho detto quello che lei voleva sentire. Dovevo farlo!»

La psicologa non gli prestò alcuna attenzione. «Devi dirglielo, ma se lo dici gli fai del male, perciò non devi, ma se non lo dici, gli fai del male, perciò devi; ma...»

Ed Herbie urlò!

Fu come il fischio di un ottavino amplificato mille volte... stridulo, sempre più stridulo fino a quando non divenne il lamento terrorizzato di un'anima persa e sembrò sbriciolare la stanza con la sua forza di penetrazione.

E quando si spense nel nulla, Herbie si afflosciò, un mucchio di metallo immobile, raggomitolato su se stesso.

Il volto di Bogert era mortalmente pallido: «È morto!»

«No!» Susan Calvin esplose in una serie di scoppi di riso convulso, che la squassavano tutta. «Non è morto... è solo impazzito. L'ho messo di fronte a un dilemma insolubile, ed è crollato. Adesso lo potete buttare tra i ferrivecchi... poiché non parlerà mai più».

Lanning era inginocchiato accanto alla cosa che era stata Herbie. Le sue dita toccarono quel volto freddo e apatico, e rabbrividì. «Lei l'ha fatto di proposito». Si alzò in piedi e l'affrontò, il volto contorto dall'ira.

«E se anche fosse? Lei non può farci niente, adesso», e in un improvviso accesso di amarezza, «se lo meritava».

Il direttore afferrò per il polso Bogert, immobile, come paralizzato: «Che differenza fa? Venga, Peter». Sospirò: «Un robot pensante di questo tipo è in ogni caso inutile». I suoi occhi erano vecchi e stanchi, ed egli ripeté: «Venga, Peter».

Soltanto molti minuti dopo che i due scienziati se ne furono andati la dottoressa Susan Calvin riguadagnò parte del suo equilibrio mentale. Lentamente i suoi occhi si girarono sul morto-vivente, Herbie, e la tensione ritornò sul suo viso. Lo fissò a lungo, mentre il trionfo svaniva e una tragica sensazione d'impotenza tornava a impadronirsi di lei, e dal turbolento groviglio dei suoi pensieri una sola parola infinitamente amara le venne alle labbra:

«Bugiardo!»

 

Questa, per loro, fu la definitiva conclusione della faccenda. Sapevo che, su di essa, non sarei riuscito a tirar fuori nient'altro da lei. Ella se ne stava lì, seduta dietro la sua scrivania, il suo volto bianco e gelido, e... ricordava.

Dissi: «Grazie, dottoressa Calvin!» ma lei non rispose. Passarono due giorni prima che potessi ritornare a trovarla.

 

Il tempo vuole uno scheletro

Time Wants a Skeleton

di Ross Rocklynne

Astounding Science Fiction, giugno

 

Ross Rocklynne ha collaborato con due racconti al 2° volume di questa serie (Nella tenebra pubblicato su «Astonishing Stories» di giugno e Quietus, sul numero di settembre di «Astounding»), racconti eccezionali che fanno risaltare in modo particolare come negli «Anni d'Oro» questo autore ricco di talento e di idee nuove sia rimasto relativamente misconosciuto, all'ombra di autori come Heinlein, Sturgeon, van Vogt e altri. Due raccolte relativamente recenti che presentano le sue opere migliori tra le prime che ha scritto sono The Sun Destroyers e The Men and the Mirror (entrambe uscite nel 1973). La sua narrativa continua ancora oggi a comparire ogni tanto, ma non troppo di frequente.

Questa formidabile storia fa parte di un ciclo di quattro che costituiscono il ciclo «Darkness», pubblicato in un arco di undici anni: Daughter of Darkness su «Astounding» del novembre 1941; Abyss of Darkness, del dicembre del 1942; e dopo un lungo intervallo Revolt of the Devil Star, su «Imaginatiom del febbraio del 1951.

 

(A volte ci si immagina che con la vecchiaia si insinui una certa stanchezza nelle ossa; che i bei vecchi tempi in realtà non fossero poi tanto belli, ma che lo sembrassero semplicemente perché allora si era giovani. Di tanto in tanto, però, provo una scossa.

Oggi non leggo più la fantascienza con l'intensa avidità con cui la leggevo da giovane. A volte direi quasi che mi annoia. Quando rilessi, però, questo Time Wants a Skeleton (Il tempo vuole uno scheletro) ritrovai improvvisamente tutta l'eccitazione di un tempo. Per un po' cercai di esprimere i miei sentimenti con una frase che non fosse un cliché, ma poi ci rinunciai. Il cliché ci stava proprio bene, infatti.

E così dissi: «Storie come queste non le scrivono proprio più». - I.A.)

 

L'asteroide n. 1007 si avvicinò roteando senza tregua.

Al tenente Tony Crow gli occhi parvero schizzare dalle orbite; l'ufficiale mollò freneticamente il timone a U inceppato e si mise a tempestare i comandi ausiliari dei razzi inferiori. L'astronave rizzò il muso verso l'alto e le stelle che punteggiavano magicamente il cielo apparvero per un attimo.

Poi l'astronave precipitò a tutta velocità contro la base della montagna; Tony fu sbalzato via dalla poltroncina di guida e andò a sbattere contro la parete con una smorfia sulle labbra. Con un piede pesantemente calzato fece pressione contro di essa proprio mentre l'astronave scaracollava, rotolava un attimo per poi immobilizzarsi nel silenzio... rotto solo dal sibilo dell'aria che fuoriusciva.

Tony si gettò verso un armadietto, tirò fuori una tuta a pressione, con la fronte imperlata di sudore. Prima che l'ultimo filo d'aria fosse definitivamente fuggito dall'abitacolo, lui aveva già indossato la tuta e stava agganciandosi il casco. Quando ebbe finito rimase un attimo impalato con la disperazione negli occhi. Il suo sguardo irrequieto si posò sul calendario a muro.

«Felice dicembre!» ringhiò.

Poi si ricordò. Johnny Braker era là fuori con altri due fuorilegge. Ormai stavano probabilmente precipitandosi da quella parte. Ragione di più perché Tony li catturasse. Ora aveva bisogno della loro astronave.

Reagì rapidamente, agganciandosi il casco e aprendo la porta stagna. Quando questa si aprì, emise un sospiro di sollievo. L'attraversò coi nervi tesi come corde di violino e si ritrovò fuori dall'astronave circondato dalla landa grigia e silenziosa di un planetoide dal diametro di trenta chilometri, distante più di centocinquanta milioni di chilometri dalla Terra.

Alla sua sinistra la montagna si levava a picco. Bene. Quello era proprio il punto in cui avrebbe voluto far scendere l'astronave. Lanciò un'occhiata riluttante all'astronave. Il suo viso assunse un'espressione funerea. La sezione di poppa aveva ceduto e si era contorta in modo addirittura ridicolo. Be', se era così, che poteva farci?

Rapidamente impugnò l'Hampton e senza far rumore aggirò il costone della montagna; quando vide luccicare l'astronave dei fuorilegge a trecento metri di distanza sul pianoro all'ombra di un cornicione di roccia si accucciò per non farsi scorgere.

Poi vide le tre figure che saltellavano verso di lui sul pianoro e alzò con decisione l'Hampton. Davanti al piccolo gruppo, leggermente sulla sinistra, si levò uno sbuffo di roccia disintegrata. Il trio si bloccò di colpo.

Tony uscì dal suo nascondiglio accendendo la radio del casco.

«Rimanete dove siete!» abbaiò.

La reazione fu inattesa e si udì il vocione furente di Braker.

«Col cavolo!»

Un minuscolo cratere comparve come per miracolo a sinistra di Tony che con un'imprecazione saltò di nuovo dietro al riparo, da cui uscì un secondo più tardi per spedire contro i tre un altro proiettile. Una delle figure cadde in avanti per non muoversi più. Il rigonfio della sua tuta si afflosciò di colpo. Gli altri due girarono sui tacchi, ma solo per fermarsi subito dopo e rintanarsi dietro un masso in mezzo alla piana. Da lì cominciarono a tempestare il riparo dietro cui stava Tony.

Tony si rimpicciolì dietro il fianco della montagna, esasperato. Il suo sguardo percorse il panorama e si fermò su una caverna, una faglia nella montagna che si protendeva fuori a una trentina di metri d'altezza.

Fissò il pavimento della caverna, incredulo.

«Che io sia dannato», mormorò.

Quel che vide era uno scheletro umano.

Impallidì e lo stomaco gli si rovesciò di colpo. Improvvisamente un turbinio di pensieri disgustosi invase la sua mente. Quello scheletro era... l'orrore!

Ed era esistito nel lontano e ormai perduto passato, prima che esistessero gli asteroidi e prima che la stessa razza umana muovesse i primi passi.

Bruscamente i pensieri scomparvero. Tornò la coscienza piena. Per un po' col viso bianco come gesso e le dita tremanti, pensò di essere lì per vomitare. Ma non lo fece.

Rimase impalato a osservare con occhi spalancati. Ricordi! Se solo avesse saputo da dove venivano... improvvisamente la sua mente si rivoltò rifiutandosi di sondare più a fondo quel mistero che minava le radici stesse della sua sanità mentale!

«Quello scheletro esisteva ancora prima della razza umana», sussurrò. «Ma allora, da dove è venuto?»

Arricciò le labbra. Illusione! Cercando di vincere la repulsione, si avvicinò allo scheletro e si inginocchiò accanto ad esso. Le ossa giacevano all'interno della caverna. La luce delle stelle, priva di colore non gli permetteva di osservarlo bene come avrebbe voluto. Ma sul lungo dito affusolato vide un baluginio d'oro. Il buon oro giallo di sempre, inalterato dall'atmosfera, in cui era incastonato uno smeraldo con un difetto, una chiara bolla d'aria ovoidale che si vedeva in trasparenza.

Fece un passo indietro, con una espressione ostinata in viso. «Illusione» ripeté.

Lo strapparono dalle sue fantasticherie una pioggia di schegge rocciose strappate al fianco della montagna dalle pallottole esplosive di un Hampton. Tony arrischiò un passo allo scoperto e fece fuoco.

Il suo proiettile centrò il masso nel mezzo e lo spaccò in due. Le due metà si separarono. I fuorilegge si misero a correre, sparando all'indietro per coprire quella frettolosa ritirata. Tony aspettò che il fuoco si calmasse un po', poi uscì di nuovo allo scoperto e sparò un colpo al di sopra delle loro teste.

Nei suoi occhi comparve un'improvvisa luce di disperazione. Sul cornicione al di sopra dell'astronave dei fuorilegge si aprì una fenditura... dove la pallottola l'aveva colpito.

«Che diavolo...» esclamò la voce di Braker nella radio. I due fuorilegge si bloccarono di colpo.

Il cornicione piombò al suolo, nella più completa assenza di suoni. Tony avanzò barcollando e senza fiato sul pianoro mentre la scena si trasformava in un inferno. L'astronave si sgretolò come se fosse stata di gesso, poi un'altra sezione del cornicione finì col seppellire definitivamente l'astronave sotto una piccola montagna di detriti.

Tony Crow imprecò con furore. Ma astronave o no, aveva ancora un lavoro da fare. Quando alla fine i fuorilegge si voltarono, si trovarono di fronte la minacciosa canna del suo Hampton.

«Le mani in alto», disse Tony, impassibile.

 

Con studiata insolenza, Harry Jawbone Yates, il più piccolo dei due sollevò le mani. Sul viso non sbarbato di Braker invece si limitò a comparire un sogghigno che gli salì fino agli occhi fumosi.

«Perché dovrei alzare le mani? Siamo tutti amici nella stessa barca ormai... in teoria». L'odio naturale che provava per ogni forma di legge gli traspariva chiaramente dagli occhi. «Hai fatto davvero uno splendido lavoro, sbirro. Darci la caccia attraverso tutto lo spazio, per poi farci finire in questo pasticcio da cui abbiamo una probabilità su cento di cavarcela è grandiosa».

Tony continuò a tenerli sotto tiro, ben sapendo cosa voleva dire Braker. Nessuna astronave avrebbe avuto una ragione di far scalo su quel minuscolo ciottolo spaziale che era l'asteroide 1007.

Con un sospiro fece un gesto. «Qua gli Hampton, ragazzi. E non fate scherzi». Le armi scesero a terra compiendo una traiettoria ad arco. «Mi spiace. La mia intenzione era di servirmi della vostra astronave per tornare tutti indietro. Ma non commetterò più un errore del genere. Non intendo più rinunciare alla partita quando è ancora solo all'inizio. Vieni qui, Jawbone».

Yates si strinse nelle spalle. Era biondo, aveva degli occhi pallidi piuttosto distanziati. Per natura era un tipo privo di coscienza. Il suo soprannome gli derivava da un osso mascellare rotto che gli sporgeva ad angolo acuto dalla linea della mascella.

Il fuorilegge gli porse i polsi. «Su, mettimi le manette». La sua voce era una cosa senza forza che non era bassa come avrebbe potuto; era piuttosto femminile. Braker era diverso, invece. Forza, nervi e audacia trasparivano in ogni caratteristica del suo corpaccio compatto. Se c'era una cosa che lo caratterizzava in modo particolare era proprio il suo violento desiderio di vivere. Questi erano uomini con un codice etico assai elastico. Ma ora era giunta la resa dei conti per alcune delle loro attività meno lecite.

Tony mise le manette ai polsi di Yates.

«E adesso a te, Braker».

«Che sia dannato se lo farò», disse Braker.

«Sarai dannato se non lo farai», ribatté Tony e giocherellò con l'Hampton mentre i suoi occhi normalmente simpatici si indurivano leggermente. «Parlo sul serio, Braker», continuò lentamente.

Braker sogghignò gettando indietro la testa. Poi come se in quel momento non ci tenesse particolarmente a fare resistenza, si sottomise.

Guardò le manette che si chiudevano senza che si udisse il rumore dello scatto. «Tanto non abbiamo neanche una probabilità su cento», ringhiò.

Tony sobbalzò leggermente, gli occhi levati verso il cielo. Fece una risatina chioccia.

«Be', che c'è di tanto divertente?» chiese Braker.

«Quel che hai detto tu». Tony allungò una mano indicandogli qualcosa. «Ecco là la probabilità di uno su cento!»

Braker si volse.

«Sì», esclamò. «Sì, maledizione!»

Al di sopra della scarpata che dava sul fondovalle si librava un'astronave che brillava debolmente al lume delle stelle. Non era visibile alcun supporto e in effetti non c'era traccia dei soliti razzi.

«Ma guarda un po' che roba!» mormorò Yates sorpreso.

«Proprio così», convenne Tony.

L'astronave si mosse. O meglio scomparve semplicemente e un attimo dopo ricomparve a una trentina di metri sul fondovalle. Sulla fiancata dell'oggetto cilindrico si aprì una valvola e saltò fuori una figura che si mise a osservarli.

Una voce metallica disse: «Voi siete gli abitanti di questo posto o solo dei visitatori?»

La voce era piuttosto allegra e decisamente femminile. I sensi di Tony si risvegliarono.

«Siamo di passaggio», spiegò. «Vede?» Batté le braccia come se fossero ali. Poi sogghignò. «Comunque, prima che comparisse la sua astronave, avevamo quasi deciso di diventare... abitanti».

«Oh, siete dei naufraghi». La voce divenne leggermente gelida. «Be', un vero peccato. Su, venite a bordo. Parleremo di tutta questa faccenda una volta dentro. Ehi... ma quelle non sono manette?»

«Infatti».

«Uhm... due fuorilegge... e uno sbirro. Be', entrate che vi presento gli altri».

 

Un'ora dopo, Tony si rilassò comodamente in un piccolo salottino senza la tuta a pressione e si fumò la terza sigaretta. Dall'altra parte della stanza c'erano Braker e Yates. La ragazza, il cui nome, a proposito, era Laurette, era appoggiata allo stipite della porta e indossava pantaloni alla cavallerizza e una blusa di seta bianca. Era bionda e aveva degli occhi limpidi di un profondo azzurro. In quel momento aveva le labbra leggermente imbronciate e appariva irritata. Tony non riusciva a distogliere lo sguardo da lei.

Accanto a lei c'era un altro uomo di carnagione scura che sembrava piuttosto iracondo di carattere. In quel momento faceva schioccare le dita in modo che tradiva chiaramente impazienza e nervosismo. Il suo nome era Erle Masters.

Nella stanza entrò un uomo più anziano che si mise a posto gli occhiali, rivolgendo poi un'occhiata circolare. Tony si alzò in piedi.

Con voce assolutamente neutra Laurette disse: «Tenente, le presento mio padre. Papà, il tenente Tony Crow delle Forze di Polizia Interplanetaria. Quei due sono i fuorilegge di cui ti parlavo».

«Dei fuorilegge, eh?» fece il professor Overland. La sua voce sembrava abbastanza profonda da contare ogni vibrazione. L'uomo si strofinò il mento su cui cresceva uno spuntone di barba. «Un vero peccato. Proprio quando abbiamo scoperto che gli strati De-Tosque del 1007 si adattavano sul 70. E c'erano delle tracce ben chiare che mostravano un netto incastro a coda di rondine dell'apice del 1007 nel quarto cratere di Morrell su Cerere, il che avrebbero collocato il 1007 vicino alla superficie se non proprio su di essa. Se avessimo potuto seguirle senza interruzione...»

«Non si lasci interrompere da questa storia», intervenne Masters. «Faremo dormire questi tre nel saloncino. E noi potremo finire di studiare le indicazioni intorno a cui stiamo lavorando per poi liberarci di loro».

Overland scosse dubbioso la testa grigia. «Sarebbe impensabile sottomettere questi due alle manette per un mese intero».

Masters replicò in tono irritato. «Li lasceremo temporaneamente liberi sulla parola se acconsentono a farsi ammanettare quando atterreremo su Marte».

Tony si mise a ridere. «Scusate, ma di questi due non c'è da fidarsi neanche per cinque minuti, non parliamo poi di un mese». Fece una pausa. «Date le circostanze, professore, penso si renderà conto che ho pieni poteri per ordinarle di riportarci su Marte. La preoccupazione maggiore del governo in un caso del genere è di mettere sotto chiave questi due bei tomi. Anzi, se ci mettiamo subito in moto, lei potrà dedicare più tempo al suo progetto».

«Naturalmente», protestò Overland. «Ma questo mi impedirà di partecipare al banchetto natalizio all'università». Nei suoi occhi deboli comparve un'espressione delusa. «Ci sono buone probabilità che mi assegnino Amos, penso, ma siamo già al tre di dicembre. Be', ci mancherà comunque la neve».

Laurette Overland intervenne amaramente. «Vorrei che non fossimo mai atterrati sul 1007. E voi ve la sareste sbrogliata benissimo senza di noi».

Tony la guardò gravemente negli occhi. «Perfettamente, signorina Overland. Solo che saremmo diventati dei residenti e nel giro di breve tempo dei defunti».

«Ah sì?» fece la ragazza sprizzando fiamme.

Erle Masters l'afferrò per un braccio mormorandole qualcosa e la portò fuori dal saloncino.

 

Overland afferrò Tony per un braccio con fare amichevole, gli occhi ridenti. «Non badi a loro, figliolo. Se lei ha bisogno di qualcosa, si serva pure della mia cabina. Ma raggiungeremo Marte in quarantott'ore, sette o otto delle quali per attraversare la Cintura degli Asteroidi».

Tony scosse la testa sbalordito. «Quarantott'ore?»

Overland sogghignò. I suoi denti erano leggermente macchiati di tabacco. «Esattamente. Questa è una delle nuove astronavi con motori H-H. Sono un fulmine».

«Oh! La contrazione di Fitz-Gerald?»

Overland annuì con aria assente e se ne andò. Tony rimase a fissare il fuoto. Ora ricordava qualcosa... lo scheletro.

Braker interruppe le sue riflessioni con ironia. «Che ridere».

Tony si voltò.

«Che cosa c'è da ridere?» chiese con pazienza.

Braker allungò le lunghe gambe massicce, continuando a giocare oziosamente con un anello d'oro al terzo dito della mano destra.

«Oh», disse distrattamente, «circola la teoria che una volta gli asteroidi fossero stati un pianeta. Solo che non sono sicuri che la teoria sia giusta, così mandano un gruppo di cervelloni per individuare delle faglie, stratificazioni e striature su un asteroide per collegarle poi a quelle di un altro. Il vecchio, qui, stava giusto per collegare il 1007 e il 70 con Cerere. Ma anche se dimostreranno la loro teoria gli asteroidi continueranno a girare intorno al Sole e cosa ci avranno guadagnato in cambio di tutti i soldi spesi?»

Il fuorilegge continuò a giocherellare distrattamente col proprio anello.

Altrettanto distrattamente Tony lo osservò mentre se lo girava ripetutamente attorno al dito. C'era qualcosa di strano... fece un balzo. Gli occhi gli schizzarono dalle orbite.

Quell'anello! Balzò in piedi per allontanarsene.

Braker e Yates lo fissarono senza capire.

Anche Braker si alzò in piedi, corrugando la fronte. «Ehi, sbirro, che ti prende? Sei impazzito? Sembri quasi un fantasma».

Il cuore di Tony prese a battere rapidamente con insistenza. Il sangue gli rumoreggiò nelle tempie. E così lui sembrava un fantasma? Scoppiò in una rauca risata. Era stata forse l'immaginazione che aveva improvvisamente strappato via la carne dalla testa di Braker non lasciando altro che un... teschio?

«Io non sono un fantasma», ribatté adagio, sempre fissando l'anello.

Strinse gli occhi e serrò i pugni.

«Ma gli ha dato di volta il cervello!» esclamò Yates, incredulo.

«E matto, matto come un cavallo!»

Tony aprì gli occhi, guardò bene Braker, Yates e le pareti tappezzate del salotto. Lentamente la tensione l'abbandonò. Ora, qualsiasi cosa fosse successa avrebbe dovuto cercare di non lasciarsi andare.

«Io sto benissimo, Braker. Fammi vedere quell'anello». La sua voce era bassa, controllata, di cattivo augurio.

«Ti ha preso un attacco?» sbottò Braker sospettoso.

«Sto benissimo, ho detto». Tony prese deliberatamente le mani ammanettate di Braker tra le sue e guardò l'anello d'oro con incastonato lo smeraldo difettoso. Un senso di nausea gli salì su per lo stomaco, ma non distolse gli occhi dall'anello.

«Dove ti sei procurato quell'anello, Braker?» chiese senza sollevare lo sguardo.

«Oh... nel 29, penso. O era il 28?» Il tono di Braker divenne improvvisamente iracondo, risentito. Si staccò dal poliziotto. «Ma che c'è sotto? Me lo sono procurato in modo legale, e allora?»

«Quello che volevo veramente sapere», disse Tony, «era se c'è mai stato un altro anello simile a questo. Spero di no... o forse sì, maledizione!»

«E io non so di cosa parli», ringhiò Braker. «Io continuo a pensare che sei ammattito. Diavolo, gli smeraldi difettosi sono come le impronte digitali, non ce ne sono due uguali».

Tony annuì lentamente e fece un passo indietro. Poi si accese una sigaretta e si lasciò avvolgere dal fumo.

«Voi rimanete qui», disse, uscì e chiuse a chiave la porta dietro di sé. Quindi percorse tutto il corridoio, scese una breve rampa di scale e imboccò un altro corridoio.

C'erano due porte. Ne scelse una, l'aprì con uno strattone. Una mezza dozzina di pacchetti scivolarono giù da quello che era evidentemente un ripostiglio. Poi si aprì anche l'altra porta. Tony barcollò all'indietro e perse l'equilibrio sotto il diluvio di pacchetti andandosi a scontrare con Laurette Overland. La ragazza cacciò un grido soffocato e cominciò a cadere. Tony riuscì a rigirarsi in tempo per afferrarla, ma caddero lo stesso tutti e due. Tony, d'impulso, l'attirò a sé e la baciò.

Laurette si divincolò col viso in fiamme. La sua mano descrisse un arco e la palma lo andò a colpire in volto con tutta la violenza di cui lei era capace. La ragazza balzò in piedi, poi la furia che le ardeva negli occhi si smorzò. Anche Tony si alzò in piedi. La guancia gli bruciava.

«Molto sportiva», scattò lui furioso.

«Ma guarda che faccia tosta», lo rimbeccò lei con voce incerta. I suoi occhi corsero oltre Tony. «Che idiota pasticcione. Adesso mi aiuti a rimettere tutti questi pacchetti sulle mensole prima che arrivi papà o Erle. Sono regali di Natale e se lei ha rotto qualche involucro... si muova, non mi vuole dare una mano?»

Tony sollevò lentamente una grossa scatola di cartone con l'etichetta «Non aprire prima di Natale» e la spinse sulla mensola più in basso, da dove sporse in bilico pronta a ricadere di nuovo. Laurette mise gli altri pacchetti più piccoli sopra di essa.

Poi si voltò, apparentemente imbarazzata quando incontrava gli occhi di lui. Alla fine sbottò: «Mi spiace di averla colpita così, tenente. Immagino che sia stata una cosa naturale... il fatto di baciarmi, voglio dire». Sorrise debolmente a Tony che si stava massaggiando tristemente la guancia. Poi riprese l'abituale freddezza e si eresse tutta.

«Se sta cercando la porta per la sala di comando, ecco là».

«Cercavo suo padre», le spiegò Tony.

«Non può disturbarlo adesso. Sta calcolando la rotta. Fra quindici minuti...» Laurette lasciò la frase in sospeso. «Erle Masters la potrà aiutare tra qualche minuto. In questo momento sta cercando di fare uscire l'astronave dalla rotta di un poliedro».

«Un poliedro?»

«Un asteroide con più facce. È così che li chiamiamo». Adesso gli stava tenendo lezione.

«Naturalmente... ma io sono ancora fermo ai triangoli, le sfere e i cubi. Un poliedro per me è una sfera. Non sapevo che fossimo già partiti. Da quanto? Non ho sentito l'accelerazione».

«Da circa dieci minuti. E naturalmente non c'è stata nessuna accelerazione con un motore H-H. Be', se ha bisogno di qualcosa può rivolgersi a Erle». Laurette lo sfiorò passandogli di fianco e si allontanò per il corridoio. Tony la raggiunse.

«No, può aiutarmi anche lei», disse con voce tagliente. «Vuole rispondere a qualche domanda?»

Lei si fermò, inarcando le sopracciglia segnate a matita, poi si strinse nelle spalle. «Su, spari, tenente». Appoggiata alla parete si accinse ad ascoltarlo pazientemente tambureggiando sulla parete con un'unghia ben curata.

Tony disse: «Tutto quel che so io sui motori Hoderay-Hammond, signorina Overland, è che invertono il principio di contrazione di Fitz-Gerald. servendosi di un nuovo tipo di inghippo meccanico. Un oggetto in movimento si contrae nella direzione del moto, perciò un oggetto stazionario, come ad esempio un'astronave, può essere fatto muovere se lo si fa contrarre nella direzione in cui ci si vuol muovere. Come ci si riesca, però, per me è mistero».

«Per mezzo dei gravitoni... dove ha vissuto finora? E cos'ha fatto in tutta la sua vita?»

«Ho imparato», rispose Tony, «le buone maniere».

Lei arrossì di colpo. Le sue dita smisero di tambureggiare. «Se lei si fosse reso conto di avere interrotto un lavoro molto importante, avrebbe capito perché mi sono scordata delle buone maniere. Noi stavamo cercando di finire le nostre ricerche in modo da permettere a papà di tornare a casa in tempo per il suo pranzo d'addio all'università. Penso che i docenti hanno visto giusto quando hanno... oh, ma perché devo stare qui a spiegarglielo?»

«Sono sicuro di non saperlo», disse Tony.

«Be', vada avanti», fece lei, fredda.

Tony accese una sigaretta, gliene offrì una, scusandosi, ma Laurette scosse la testa con impazienza.

Tony la guardò attraverso una cortina di fumo. «Là sul 1007 ho visto uno scheletro con un anello al dito».

La ragazza non sembrò per nulla colpita. «Be', era un bell'anello?»

Tony rispose truce. «Il fatto è che Braker non si è mai avvicinato a quello scheletro dopo che l'ho visto io, ma adesso ha al dito lo stesso anello».

Negli occhi della ragazza comparve un'espressione di sbalordimento. «Ma questo non è davvero plausibile, tenente!»

«No, infatti. Perché lo stesso anello si trova nello stesso tempo in due posti diversi».

«E naturalmente», convenne lei, «questo sarebbe impossibile. Prosegua. Non so a cosa vuole arrivare, ma la faccenda è senz'altro interessante».

«Impossibile?» sbottò Tony. «Solo che si dà il caso che sia la verità. Ma non ho l'intenzione di cercare di spiegarlo, signorina Overland, se è la verità. Ma non ho l'intenzione di cercare di spiegarlo, signorina Overland, se è a questo che sta pensando. E c'è anche qualcos'altro. Quello scheletro è uno scheletro umano, ma risale a prima ancora che esistesse la razza umana».

Laurette si riscosse dalla sua posizione indolente. «Lei deve essere ammattito».

Tony non disse nulla.

«Come fa a saperlo?» gli chiese poi brusca.

«Lo so. Ora mi spieghi lei i motori H-H, se vuole».

«Certo!» Poi la ragazza continuò: «I gravitoni sono la particella più piccola della materia. Ce ne sono 1846 in un protone, uno in un elettrone, e questo spiega perché un protone è 1846 volte più pesante di un elettrone.

«Adesso mi dia una sigaretta, tenente. Questa faccenda mi incuriosisce e se anche io non riesco ad andarci a fondo, certo ci riuscirà mio padre».

Dopo un attimo espirò il fumo nervosamente. Quindi riprese a parlare con rapidità: «Un distruttore Wittenberg fa a pezzi gli atomi e gli elettroni liberi vengono deviati in accumulatori da cui noi poi attingiamo energia per l'illuminazione, la cottura dei cibi, il riscaldamento e così via. I protoni, invece, vanno in un analizzatore protonico dove i gravitoni vengono loro strappati e custoditi in uno speciale tipo di campo sferico. Quando noi vogliamo far spostare l'astronave i gravitoni vengono liberati ed essi dilagano per tutta l'astronave e le cose in essa contenuti.

«Il luogo naturale in cui sta un gravitone è un protone. I gravitoni si gettano verso i protoni, che sono già saturati con ben 1846 gravitoni. Ora nello spazio tridimensionale i gravitoni non riescono a rimanere liberi e fuggono lungo la linea del tempo nel passato. La reazione fa contrarre gli atomi dell'astronave e di tutto ciò che vi è contenuto e la spinge avanti lungo la linea temporale opposta... avanti nel futuro e nello spazio. Nello spazio apparente di un secondo, perciò, l'astronave può viaggiare per migliaia di miglia senza che ne risulti il minimo effetto di accelerazione. Ed ora ha tutti gli elementi, tenente. Ne faccia quel che crede».

«Cosa succederebbe se i gravitoni fossero costretti a procedere verso il futuro piuttosto che verso il passato?» chiese Tony.

«Mi avrebbe veramente sorpreso se non me l'avesse chiesto, tenente. Teoricamente si tratta di una cosa impossibile. Chiunque conosca la teoria dei gravitoni le risponderebbe così. Ma se Braker porta un anello che è anche al dito di uno scheletro più vecchio della razza umana... ugh!»

La ragazza si portò le mani alle tempie in un gesto di autentica disperazione. «Dovremo andare da mio padre», disse alla fine con aria stanca. «Sarà lui a scoprire se lei si è inventato tutta la faccenda».

 

Erle Masters spostò lo sguardo da Tony a Laurette.

«E tu credi a queste scemenze che ti ha raccontato?»

«Non m'interessa ciò che pensi tu, Erle. Ma aspetto di sentire cos'hai da dire tu, papà».

Overland apparve a disagio. La sua mascella si muoveva appena.

«Sì... possono sembrare ehm... scemenze», mormorò alla fine. «Se lei non fosse della polizia, penserei che ha il cervello un po' fuori squadra. Ma... una cosa, giovanotto. Come ha fatto a capire che quello scheletro era più vecchio della razza umana?»

«Io ho detto che è esistito prima della razza umana».

«Perché? Fa differenza?»

«Io penso di sì... in un certo senso».

«Bene», disse Overland pazientemente. «Come fa a saperlo?»

Tony esitò. «In realtà non è che lo so bene. Io mi trovavo presso l'imboccatura della caverna e qualcosa... o qualcuno... me l'ha detto».

«Qualcuno!» esclamò Masters incredulo.

«Non lo so!» ribatté Tony. «Io so solo quanto vi ho detto. Non potrebbe essere stato qualcosa di soprannaturale, no?»

Overland gli parlò rapidamente. «Non si lasci sconvolgere, figliolo. Certo che non è stato nulla di soprannaturale. C'è una spiegazione razionale, da qualche parte. Ma non sarà facile andarla a scovare».

Erle fece un cenno d'assenso con aria distratta e continuò ad annuire come una marionetta, poi sorrise in modo strano.

«Io sono vecchio, figliolo... lo sai? E ho visto parecchie cose. Non mi rifiuto a priori di credere a qualcosa. A questo punto a uno scienziato non resta da intraprendere logicamente che un passo e cioè di tornare indietro e dare un'occhiata a quello scheletro».

Masters ansimò: «Ma non può farlo!»

«Invece sì. E si ricordi che lei lavora alle mie dipendenze solo perché è Laurette che me l'ha chiesto. Adesso riporti questa astronave verso il 1007. Questa può essere una faccenda molto più importante che non cercare di rimettere insieme i cocci di un mondo». Fece una risatina.

Laurette scosse la testa bionda. «Sapete», disse pensierosa. «Questa forse è proprio la cosa che non dovremmo fare... tornare indietro voglio dire. D'altra parte se proseguissimo, potrebbe essere invece quella la cosa sbagliata».

Masters brontolò: «Stai dicendo delle sciocchezze, Laurette».

L'afferrò con ostentazione per il braccio nudo e l'allontanò dalla stanza al seguito del padre, lanciando a Tony un'occhiata significativa mentre gli passava davanti.

Tony esalò un lungo respiro. Poi, con un sorriso storto, tornò nel saloncino per aspettare... che cosa? Il suo stomaco si contrasse di nuovo per la nausea... o era premonizione?

 

Braker si alzò di scatto in piedi. «Che succede, Crow?»

«Fammi rivedere quell'anello», disse Tony. Dopo un istante sollevò gli occhi con aria assente. «È proprio lo stesso», mormorò.

«Vorrei sapere», esplose Braker, «di cosa sta parlando!»

Tony lo guardò di traverso e disse a bassa voce: «Forse è meglio di no».

Si sedette e si accese una sigaretta. Braker imprecò e si avvicinò infine a un oblò. Tony sapeva cosa stava pensando: alla Terra; alle città affollate; alle vaste distese di spazio aperto tra i pianeti. Dovevano essere quelli i pensieri per Braker che amava la vita e la libertà.

Braker che portava un anello...

Poi le costellazioni che apparivano dal portello mutarono improvvisamente disposizione.

Braker fece un salto indietro e gli occhi parvero schizzargli dalle orbite. «Che diav...?»

Yates, che se ne stava imbronciato in un angolo, scattò in piedi allarmato. Senza parlare Braker gli indicò le stelle.

«Eppure avrei giurato...» disse con voce impastata.

Anche Tony si alzò in piedi. Aveva visto anche lui il mutamento. Ma i suoi pensieri erano netti, freddi, sulle labbra aveva un leggero sorriso come cristallizzato.

«Hai visto giusto, Braker», gli disse freddamente, poi riuscì ad afferrarsi a un corrimano mentre l'astronave si inalberava. Braker e Yates svolazzarono attraverso la stanza con la sorpresa dipinta in volto. L'astronave si rivoltò dall'altra parte. I cieli rotearono, le stelle apparvero confuse e tremolanti. E oltre alle stelle confuse, Tony vide qualcos'altro: un mostruoso paesaggio grigio uniforme, un'orizzonte tagliato da montagne, un piccolo sole luminoso che orlava le nubi di una tinta argenteo rossastra, orribile. Poi le stelle sfrecciarono di nuovo davanti al portello mentre l'astronave penetrava in un'atmosfera...

Le tenebre si abbatterono su Tony Crow ottundendone la coscienza finché alla fine anche l'ultima traccia di pensiero coerente non scomparve. Ma gli parve ugualmente di aver capito cos'era successo. C'era uno scheletro in una caverna su un asteroide... a milioni di anni di distanza adesso. E l'astronave aveva urtato.

 

Tony si mosse. Aprì gli occhi. Le luci si erano spente, ma dal portello ancora intatto penetrava un pallido fascio di luce. Dei suoni si fecero strada lentamente nel suo cervello. Lo sgocciolio della pioggia, il leggero mormorio di un vento spasmodico, un gutturale kutakikchkut che veniva trasportato insistentemente dal vento con effetto soprannaturale.

Tony si rialzò lentamente. Era disteso sopra Braker. L'uomo respirava pesantemente e sulla fronte aveva un leggero taglio. Involontariamente gli occhi di Tony caddero sull'anello che brillava come un occhio malvagio. Distolse gli occhi con uno sforzo.

Yates si stava agitando, brontolando tra i denti. I suoi occhi si apersero di scatto e fissarono Tony.

«Che è successo?» chiese con voce impastata. Si alzò barcollando. «Puah!»

Tony sorrise nella penombra. «Dà tu un'occhiata a Braker», gli disse e si voltò verso la porta che era stata scardinata. Percorse con lunghi salti il corridoio fino nella sala di controllo, rallentando solo sulla rampa del ponte inferiore che non era illuminata. Penetrò nella sala di controllo a tentoni e si mosse finché col piede incespicò in un corpo. Si chinò: un braccio morbido e nudo. Improvvisamente preso dal panico che gli mozzò il fiato, sollevò il corpo di Laurette che respirava adagio tra le sue braccia. Avrebbe potuto essere di piombo. Anche i piedi di lui parevano di piombo. Con uno sforzo si aprì la strada verso il corridoio superiore, aprì con un calcio la porta della camera del padre di lei e depose gentilmente la ragazza sul letto. C'era della luce, probabilmente quella di una luna. Tony esaminò ansiosamente il viso di lei e le strofinò le braccia in direzione del cuore. Il sangue le tornò nelle guance. Laurette ansimò, poi rotolò su se stessa. Gli occhi le si aprirono.

«Tenente», mormorò.

«Tutto bene?»

Tony l'aiutò a rialzarsi.

«Grazie, tenente. Ce la farò». Poi si irrigidì. «E mio padre?»

«Vado a prenderlo», le disse Tony.

Cinque minuti dopo anche Overland era disteso sul letto e nei suoi occhi aperti si leggeva un'espressione di dolore. Aveva tre costole rotte. Erle Masters incombeva ai piedi del letto e si strofinava un lato del viso con un fazzoletto arrossato. Negli occhi aveva un'espressione stordita e spaventata. Tony sapeva di cosa aveva paura, ma neanche lui aveva voglia di giocare con quell'idea in quel momento.

Nell'armadietto del pronto soccorso di bordo trovò un grosso rotolo di cerotto che avvolse attorno al petto di Overland. Le fratture erano di tipo semplice. Col tempo si sarebbero saldate senza difficoltà. Ma intanto Overland avrebbe dovuto riposare supino.

Gli occhi di Masters incontrarono quelli di Tony con riluttanza.

«Dovremo indossare le tute a pressione e dare un'occhiata là fuori».

Tony si strinse nelle spalle. «Non avremo bisogno di tute a pressione. Stiamo già respirando l'aria esterna alla pressione atmosferica di questo pianeta e siamo ancora vivi. Le paratie devono avere ceduto da qualche parte».

La voce profonda di Overland risuonò lenta. «Credo di avere un'idea di dove siamo, Erle. Senti anche tu l'attrazione esercitata da questo pianeta... un pianeta di normali dimensioni. La gravità direi che è circa una volta e mezza quella della Terra. La sento dalle mie costole». Un'espressione vacua gli comparve sul viso, poi guardò Tony senza la minima intenzione di fare dello spirito. «Forse sono proprio io quello scheletro, figliolo».

Tony riprese fiato. «Sciocchezze. È Johnny Braker che ha al dito quell'anello. Se quello scheletro appartiene a qualcuno, quel qualcuno deve essere lui. Non che gli auguri una brutta fine, naturalmente». Fece un gesto col capo, pieno di significato, poi si volse verso la porta indicandola a Masters. Questi, risentendosi chiaramente di quell'ordine silenzioso esitò, fino a quando Laurette gli fece un cenno impaziente.

Percorsero a tentoni il corridoio in penombra verso la piccola sala motori e aprirono la porta con uno spintone. Subito li aggredì un intenso odore di ozono e di gomma bruciata.

Masters sbottò in un'espressiva imprecazione mentre Tony proiettava un raggio di luce su quel che rimaneva delle apparecchiature per la Contrazione di Fitz-Gerald che giacevano rovesciate. Le sue unghie fecero un rumore sorprendentemente forte in quel silenzio.

«Be', siamo sistemati», mormorò.

«Come sarebbe a dire?» Gli occhi di Tony lo cercarono nell'oscurità.

«Voglio dire che noi siamo bloccati qui a milioni di anni di distanza nel passato». Erle scoppiò in una risata aspra e insicura.

Senza la minima emozione Tony disse: «La pianti. Questa astronave non è dotata di razzi ausiliari?»

«Naturalmente. Ma questo è un pianeta dotato di una gravità e mezza. E poi anche i razzi ausiliari non saranno in condizioni molto buone dopo una caduta di venti metri».

«Vuol dire che li ripareremo», disse Tony brusco. Poi aggiunse. «Cosa le fa pensare che siamo finiti a milioni di anni nel passato, Masters?»

Masters si appoggiò allo stipite della porta, il viso freddo e duro come pietra.

«Non mi faccia strisciare davanti a lei più del necessario, tenente», disse in un tono che sottintendeva una minaccia. «Io prima non avevo creduto alla sua storia, ma adesso sì. Lei ha predetto questa situazione... doveva succedere. Così sono pronto a concederle che siamo tornati indietro di milioni di anni; soprattutto perché non c'era nessun pianeta dotato di un G e mezzo nel raggio di cento milioni di miglia dalla cintura degli asteroidi. Ma una volta ce n'è stato uno».

Tony mosse appena le labbra. «Sì?»

«Ce n'è stato uno... prima degli asteroidi».

Tony fece un sorriso strano. «Sono felice che se ne sia reso conto».

Si voltò e andò verso la porta stagna, ma dal momento che l'intero sistema di trasmissione elettrica era saltato, l'abbandonò e seguì una corrente di aria umida. Aprì di colpo lo sportello di un piccolo ripostiglio di provviste e si infilò dentro. C'era un foro nella parete e le cassette di viveri in scatola erano state proiettate tutte su un lato. Al di là c'era la notte fonda.

Tony strisciò fuori e si rizzò in piedi, sottovento rispetto alla nave. Di tanto in tanto gocce di pioggia lo pungevano in viso. Il vento soffiava su un pianoro roccioso. Nella notte si udiva il monotono kutakikchkut di qualche uccello notturno, appollaiato nella boscaglia che cingeva un promontorio stagliato come un nero triangolo contro il cielo coperto da pesanti nubi. Verso sinistra, una luce, proveniente probabilmente da una luna, forava timidamente la coltre di nubi sull'orizzonte.

I denti di Masters batterono per il freddo.

Tony girò attorno all'astronave cercando di valutare i danni. Fu lieto di vedere che sebbene i razzi ausiliari fossero contorti e rotti, l'unico foro nella paratia fosse quello del ripostiglio. Quello era facile da riparare e così, pure i razzi, con un po' di tempo.

Stavano per rientrare a bordo quando Masters lo afferrò per il braccio, indicandogli un punto in cielo in cui appariva una spaccatura tra le nubi.

Tony annuì lentamente. Tra le stelle che baluginavano appena visibili, c'era un altro corpo celeste che appariva come una minuscola mezzaluna.

«Un pianeta?» mormorò Tony.

«Deve esserlo». La voce di Masters era bassa.

Per qualche istante rimasero a fissare quella mezzaluna, prigionieri di quel maligno bagliore, poi Tony si riscosse e rientrò dal ripostiglio.

Mentre percorreva il corridoio con Masters, Tony si scontrò con Braker e Yates.

Braker sogghignò, ma i suoi occhi non promettevano nulla di buono.

«Cos'è questa storia dello scheletro?»

Tony si morse un labbro. «Dove l'hai sentita?»

«Dalla ragazza e dal vecchio. Ci siamo fermati un attimo fuori della loro cabina. Be', le cose che dicevano non avevano senso. Parlavano di un anello con smeraldo, di una caverna e di uno scheletro». Fece un passo avanti, con una brutta luce negli occhi. «Vuota il sacco, Crow. Che relazione c'è tra l'anello che ho al dito e lo scheletro?»

«Tu sragioni, Braker», gli rispose Tony freddo. «Torna nel saloncino».

Braker fece un versaccio. «E perché? Non puoi tenerci là dentro con la porta scardinata».

Rivolto a Yates, Tony disse: «Tu te ne intendi di elettricità? Mi pare che una volta avevi un diploma di elettrotecnico».

Il viso sottile di Yates si illuminò, prima di ricordarsi di assumere la solita posa strafottente. «Sì, è così», rispose. Poi guardò Braker con aria interrogativa.

Braker intervenne: «Spiacenti, ma non siamo obbligati a lavorare per te. E poiché siamo tuoi prigionieri, sei tu responsabile della nostra sicurezza. Però siamo disposti ad aiutare te o chiunque sia il capo se non saremo più considerati prigionieri».

Tony fece un cenno d'assenso. «Più che giusto. Ma per stasera rimarrete prigionieri. Domani magari no», e li risospinse nel saloncino. Li ammanettò al corrimano e così li lasciò, alquanto aggrondato. Braker in effetti era stato troppo condiscendente.

La ragione di quell'acquiescenza Tony la scoprì più tardi mentre tornava nel corridoio, quando vide qualcosa di luccicante sul pavimento. Si bloccò. La nausea lo colse di nuovo e raccolse l'anello.

Masters si voltò e chiese brusco: «Che c'è?»

Tony sorrise storto, gettò un paio di volte in aria l'anello, pensieroso, e l'acchiappò al volo. Poi lo passò a Masters.

«Vuole un anello?»

Il viso di Masters divenne bianco come la morte e l'uomo fece un balzo indietro.

«Accidenti a lei!» disse con violenza. «Porti via quella roba!»

«Braker se l'è fatto scivolare fuori dal dito», disse Tony con la voce che in quel silenzio risuonò tagliente. Poi girò sui calcagni e tornò nel saloncino dove richiamò l'attenzione di Braker.

Gli porse l'anello.

«Questo deve esserti caduto», gli disse.

Le labbra di Braker si aprirono in una risata rauca e allegra.

«Puoi tenertelo, sbirro», ansò. «Io non voglio diventare un dannato scheletro!»

Tony si fece scivolare l'anello in tasca e tornò in corridoio. Andò a bussare alla porta di Overland e l'aprì quando sentì la voce di Laurette.

Masters e Laurette lo guardarono con aria strana.

Overland alzò lo sguardo dal letto.

«Tenente», gli disse, con un'espressione quasi vergognosa dipinta in viso, «a volte mi interrogo sulla mente umana. Masters sembra pensare che adesso che ha lei l'anello, sarà lei a fare anche da scheletro».

Masters fece schioccare le dita. «È vero, no? I fuorilegge sanno dell'anello. Noi sappiamo dell'anello. Ma l'anello l'ha Crow e certo nessuno di noi glielo porterà via».

Overland sbuffò per l'esasperazione.

«Infantile!» esclamò. «Masters, lei si sta comportando come un bambino, non da scienziato. C'è solo una certezza, e cioè che uno di noi diventerà uno scheletro. Ma non sappiamo con certezza chi. E c'è perfino la possibilità che moriamo tutti quanti». Il suo volto si rannuvolò per l'ira. «E poi mi pare che ormai condividete tutti il punto di vista più infantile. Quell'anello vi ha fatto diventare superstiziosi. Adesso è diventato un anello di morte! Morte per chi lo porta! Bah!»

Con un gesto imperioso allungò la mano.

«Lo dia a me, tenente! Le dico subito che nessun trucchetto in tutto l'universo riuscirà a cambiare il fatto che sia io quello scheletro, se lo dovrò essere e viceversa».

Tony scosse la testa. «Lo terrò io... per un po', almeno. E tanto vale che lei sappia che non c'è argomento scientifico che possa convincere qualcuno che questo non è un anello di morte. Perché, vede, lo è veramente».

Overland si lasciò andare sul letto e sporse le labbra. «Cosa intende farne?» chiese. E quando Tony non rispose, aggiunse querulo. «Oh, ma a che serve! Comunque la si guardi, tutta questa faccenda è impossibile». Poi il viso gli si illuminò. «Cos'ha scoperto?»

 

Tony gli illustrò brevemente le sue conclusioni. Ci avrebbero messo due o tre settimane a riparare i razzi e a rimettere in sesto l'impianto elettrico.

Overland annuì con aria assente. «Strano, però!» disse pensieroso. «Guardi quanto lavoro hanno fatto DeTosque, Bofley, Morrell, Haley, i fratelli Farr e io stesso per niente. Il fatto che noi siamo qui dimostra appunto la teoria a cui lavoravano».

Laurette sorrise a Tony, nient'affatto allegra.

«Tenente», gli disse, «forse quello era uno scheletro di donna».

«Una donna!» sbottò Masters con l'orrore in volto. «Non tu, Laurette!»

«Perché no? Anche le donne hanno uno scheletro... o non lo sapevi?» La ragazza tenne gli occhi fissi su Tony. «Allora, tenente? Le ho fatto una domanda».

Tony rimase impassibile. «Lo scheletro», disse senza un tremito, «era quello di un uomo».

«Allora», disse Laurette Overland stendendo la mano a coppa, «dia a me quell'anello».

Tony si irrigidì, spalancando tanto d'occhi. Che quella menzogna dovesse avere una ripercussione del genere, era incredibile. Con la coda dell'occhio vide il volto di Overland sbiancarsi lentamente. Su Masters, la frase di Laurette ebbe un effetto anche maggiore.

«Accidenti a lei, Crow!» esclamò questi con voce pastosa. «Questo è solo un suo trucchetto per sbarazzarsi di quell'anello!» E gli si lanciò addosso.

Preso alla sprovvista, Tony cadde all'indietro sotto l'impatto del pugno di Masters e cadde lungo disteso sulla schiena. L'altro gli si gettò addosso.

«Erle, maledetto idiota!» Questa volta fu Laurette a imprecare.

Un'espressione di disgusto comparve sul viso di Tony. Si sollevò con un potente sforzo muscolare e fece volare Masters sopra di sé. Poi il suo pugno si abbassò con violenza e si udì un crac, Masters si afflosciò, improvvisamente privo di sensi.

Tony si tirò in piedi, ansando. Laurette era inginocchiata accanto a Masters, ma i suoi occhi erano rivolti con espressione addolorata a Tony.

«Mi spiace, tenente!» esclamò la ragazza.

«Di cosa deve spiacersi?» scattò Tony. «A parte del fatto di essere innamorata di uno scemo simile».

Si dispiacque di quella frase nello stesso istante in cui la disse. Non cercò di leggere l'espressione di Laurette ma si rivolse incupito a Overland.

«È notte», disse brusco, «e piove. Domani quando ci sarà il sole, probabilmente sarà diverso. Allora potremo valutare la situazione e pensare al da farsi per...» lasciò la frase in sospeso. Al da farsi per cosa? Così concluse: «Io consiglio di andare tutti a dormire», e se ne andò.

Dispose delle coperte sul pavimento della sala di comando e si addormentò istantaneamente, anche se capitò poi che a volte si agitasse violentemente. Nei suoi sogni c'era uno scheletro...

Al mattino, si trovarono in cinque al tavolo della colazione. Laurette serviva in tavola; Masters accanto a lei teneva fissi gli occhi imbronciati sul cibo; Braker mangiava di gusto, come potevano permetterglielo le mani ammanettate; Yates invece mangiucchiava senza interesse.

Tony finì la seconda tazza di caffè e tirò indietro la sedia facendola stridere sul pavimento.

«Io vado a dare un'occhiata in giro», disse a Laurette a mo' di spiegazione. Si volse verso la porta.

Braker si appoggiò allo schienale della sedia fino a bilanciarla su due gambe e sogghignò apertamente.

«Dove vai, signor scheletro?»

Tony si immobilizzò di scatto.

«Fra un po', Braker», disse con occhi gelidi, «provvederò anche all'anello».

Yates abbassò la forchetta. «Se vuoi dire che intendi sbarazzartene, sai bene che non puoi farlo. Quell'anello tornerà sempre». Nei suoi occhi c'era un'espressione di sfida.

Masters alzò lo sguardo, nei suoi occhi turbinavano decine di pensieri. Poi tornò alla sua colazione.

Tony si chiese cosa potesse voler dire quell'espressione, poi si strinse nelle spalle e se ne andò; poco dopo uscì dall'astronave servendosi della lacerazione nel ripostiglio.

Si allontanò dall'astronave camminando lentamente, con aria distratta, lasciando che le impressioni gli penetrassero nella mente senza incontrare resistenza. C'era qualcosa di tremendamente familiare in quella pianura accidentata, anche se il ricordo era del tutto vago e irreale. C'era della vita animale, esseri che si agitavano nell'umido humus, nell'erba alta e fitta e in cima agli alberi contorti. Questo era un paesaggio di campagna montana e poco lontano scorreva un torrente.

Si costrinse ad andare in quella direzione sotto un sole minuscolo ma eccezionalmente brillante che proiettava un'ombra lunga solo pochi centimetri. Era mezzogiorno.

Si fermò sull'orlo del torrente, sentendo sul viso l'umidore degli spruzzi ricchi di colore per l'effetto prismatico dell'acqua. I suoi occhi seguirono il torrente fin su la faglia della montagna dove l'acqua si riversava in basso da una spaccatura nella roccia con la violenza di un colpo di maglio. Rimase lì, perso nei suoi pensieri astratti, dove tutti gli altri rumori venivano soffocati da quello del torrente.

Tutti i rumori eccetto quello di una scarpa contro la roccia dietro di lui. Cercò di rigirarsi di scatto: troppo tardi! Un paio di mani lo spinsero sulla schiena... e un istante dopo Tony piombò giù dall'orlo del baratro cercando invano di appigliarsi a qualcosa in mezzo agli spruzzi densi dell'acqua. Poi, dopo un istante di orribile gelo, le acque si chiusero sopra di lui e fu trascinato via mentre cercava disperatamente di respirare e mulinava freneticamente le braccia.

Quando fu risospinto in superficie, colse un caotico baluginio di sole e di cielo rannuvolato e di rocce e quindi andò sotto di nuovo dopo essersi riempito solo a metà i polmoni di aria. Si irrigidì, cercando di vincere il panico che lo stava afferrando, mentre lentamente sentiva tornargli il sangue freddo. Mani e piedi cominciarono a battere all'unisono per un unico scopo. La superficie dell'acqua si ruppe attorno a lui e Tony riuscì a rimanere di sopra, ma questo solo perché il torrente ora scorreva uniformemente e veloce. Non poteva fare nulla per cercare di vincere la violenza della corrente.

Si contorse e cercò selvaggiamente qualche appiglio fin che gli si avventò addosso un ramo d'albero scaglioso e oleoso. Un tentativo disperato e il ramo si piegò verso il torrente, forzato a farlo dal peso che esercitava il corpo di lui. Con una mano tremante si scostò i capelli dagli occhi e sbatté gli occhi vedendo le rapide irte di spuntoni di roccia una trentina di metri più avanti. La sua mente provò un brivido al pensiero di quanto sarebbe successo se non ci fosse stato lì quel ramo...

Ormai indebolito, si tirò su lentamente, una mano dietro l'altra, finché sotto di lui non sentì un solido tronco. Alla fine si lasciò cadere al suolo dove giacque esausto, ansimando. Fu allora che ricordò le mani che aveva sentito contro la schiena. Con uno scatto tirò fuori di tasca l'anello portachiavi e vide subito la risposta... la chiave delle manette era scomparsa, rubatagli durante la notte, naturalmente! Era stato Erle Masters, allora, a compiere la grande impresa, o forse uno dei fuorilegge dopo che Masters l'aveva liberato.

Dopo un po' si rizzò in piedi e cercò di orientarsi. Alla sua sinistra, il fianco di un promontorio e a circa un chilometro di distanza appariva la patetica sagoma dell'astronave, in cima a un pendio che si stendeva per lungo tratto.

Il fianco del promontorio tornò nel suo arco visivo. E una faglia della scarpata toccò un punto nascosto della sua memoria. Involontariamente mosse qualche passo in quella direzione, ma rallentò subito prima di arrivare alla faglia... che in realtà era una caverna che finiva nel nulla man mano che i suoi fianchi salivano.

La caverna!

E quel pianoro in pendenza, quelle montagne componevano la superficie dell'Asteroide 1007, milioni di anni fa, nel passato.

 

Tony cadde in ginocchio davanti all'imboccatura della caverna, senza provare più alcuna emozione. Non era passato molto da quando aveva fatto la stessa cosa, nello stesso punto. Allora in quel luogo c'era stato uno scheletro completo e allora, per qualche strana ragione, aveva compreso che quello scheletro era esistito ancora prima che esistesse la razza umana... come se qualcuno... lo scheletro, forse?... gli avesse parlato attraverso l'abisso del tempo. Lo scheletro? Non poteva essere! Eppure, da dove era venuto quel ricordo?

Prese l'anello dalla tasca e se l'infilò al dito. L'anello risplendette.

Rimase lì inginocchiato per alcuni minuti, come un uomo che adora la propria tomba e lui non era ancora morto. Non era morto! Allora si tolse l'anello dal dito con un leggero sorriso sulle labbra.

Si rialzò in piedi mentre un vento leggero si alzava a scompigliargli i capelli. Fece una mezza dozzina di passi di corsa verso il fiume e sollevò il braccio al di sopra della spalla come nell'atto di lanciare lontano qualcosa.

Ma l'anello gli sfuggì di mano e cadde.

Si chinò e lo raccolse. Questa volta gli riuscì di lanciarlo e l'anello si allontanò caprioleggiando e sprizzando bagliori alla debole luce del sole, ma la forza di gravità si impossessò di lui e l'anello cadde sull'orlo del fiume in piena vista.

In gola Tony provò una strana sensazione di secchezza. Scuro in volto fece qualche passo avanti e raccolse di nuovo l'anello, poi, avanzò fin sull'orlo del fiume, sollevò l'anello al di sopra delle scure acque mulinanti e lentamente lo lasciò andare.

L'anello piombò nel fiume. Le acque si chiusero su di esso e l'anello scomparve. Tony guardò il punto in cui l'anello era scomparso, aspettandosi quasi di vederlo balzare fuori a ritroso dall'acqua fin sulla sua mano. Ma non successe nulla! L'anello era scomparso per sempre!

Solo allora si mosse per tornare, ancora stordito, verso l'astronave, muovendosi come in un sogno irreale. Era paradossale che fosse riuscito a liberarsi dell'anello. Gli era sfuggito una volta di mano, la seconda era caduto sulla riva del fiume. La terza aveva finalmente ceduto!

Quando raggiunse l'astronave, Masters era a poppa e controllava i razzi danneggiati. Quando si voltò e vide Tony con l'uniforme zuppa e gocciolante d'acqua mosse un passo indietro e il suo viso divenne pallidissimo.

Tony arricciò le labbra. «Chi è stato?»

«Chi è stato a far cosa?»

«Lei sa cosa intendo dire», abbaiò Tony, facendo tre rapidi passi in avanti.

Masters lo vide e perse la testa. Tony lo scansò e sollevò il braccio sinistro in un breve arco. Masters cadde a terra imprecando. Tony si inginocchiò, tenendo Masters inchiodato per la gola. Gli frugò in tasca e scoprì la chiave delle manette. Poi tirò Masters in piedi con uno strattone, lo scosse e sentì i denti dell'altro che battevano.

«Assassino!» gli gridò Tony, pallido di rabbia.

Masters si liberò con uno strattone. «Lo rifarei ancora», gridò furioso, e cercò nuovamente di colpirlo. Lo mancò. Tony gli vibrò un colpo a palma aperta, mettendoci tutta la sua forza, e prese Masters letteralmente, sulla testa. Masters barcollò all'indietro e andò a sbattere contro la fiancata dell'astronave. Tony gli lanciò un'occhiata infuocata, poi girò sui tacchi.

Incontrò Laurette Overland che scendeva gli scalini del corridoio superiore.

«Tenente!» Gli occhi della ragazza brillarono di piacere. «La stavo appunto cercando. Dove diavolo è stato?»

«Lo chieda a Masters». Con uno sforzo Tony cercò di tirare dritto a muso duro, ma lei lo raggiunse correndo per stare al suo passo.

«Ma è tutto bagnato!» esclamò. «Non mi vuole dire cosa le è successo? È andato a nuotare?»

«Involontariamente». Tony continuò a camminare.

Laurette lo afferrò per un braccio e lo costrinse a rallentare fino a fermarsi. Nei suoi occhi si accese una scintilla che non prometteva nulla di buono.

«Come sarebbe a dire che dovrei chiederlo a Erle?» chiese. «È stato lui a spingerla in acqua? Se l'ha fatto, lo...» La ragazza rimase senza parole.

Tony scoppiò in una risata assolutamente priva di umorismo. «L'ha anche ammesso. Mi ha rubato la chiave delle manette con l'idea che sarebbe stato più facile liberare a quel modo Braker e Yates dopo che io fossi stato... uh... manipolato in modo da diventare uno scheletro».

La testa di lei si mosse avanti e indietro. «Ma è orribile!» esclamò a bassa voce. «Orribile».

Tony sostenne il suo sguardo. «Forse non avrei dovuto dirle niente», le disse con voce leggermente acida. «Masters è il suo fidanzato, vero?»

Laurette annuì impercettibilmente, cercando di studiare la sua espressione nella penombra. «Sì, ma forse cambierò idea, tenente. Forse. Ma intanto mi segua. Papà ha scoperto qualcosa di meraviglioso».

 

Il professor Overland si teneva su la testa con la palma della mano. Sulle ginocchia sollevate a piramide aveva carta e matita.

«Ah, tenente! Entri». Il viso gli si illuminò. «Guardi qui! I gravitoni possono venire proiettati nel futuro, proiettando a loro volta l'astronave nel passato, ma solo se si è verificata una penetrazione nel modello sferico del vuoto eterico. Questo vuoto sarebbe privo di tutto, elettroni, fotoni, raggi cosmici e così via, tranne che in particolari circostanze. In un certo particolare istante, nel passato o nel futuro, ci potrebbe essere un fiotto di fotoni che attraversano questo vuoto. Ora, quando i gravitoni vengono espulsi nel passato, essi si aggrappano ai fotoni e diventano dei normali elettroni negativi. A questo punto diciamo che i fotoni si trovano più lontani nel passato di quando siano nel futuro. I gravitoni perciò seguono la linea di minor resistenza e si agganciano ai fotoni del futuro. In questo caso i fotoni si trovavano forse a centinaia di milioni di anni di distanza nel vuoto. Nel viaggiare lungo questa distanza temporale, i gravitoni hanno scagliato indietro l'astronave di un numero proporzionale di anni, facendo saltare tutti i nostri macchinari e facendoci naufragare su questo mondo materializzatosi prima che ci fossero gli asteroidi».

Laurette intervenne. «Ma non è questa la parte più importante, papà».

«Io posso riuscire a trovare un altro di questi vuoti eterici», continuò il professor Overland, con aria preoccupata, indicando una serie di equazioni. «Stesso tipo, stessa struttura. Ma è necessario tornare sulla Terra per costruire le macchine inverse della contrazione. È là che potremo trovare i materiali necessari». Sollevò gli occhi. «Ma dobbiamo lasciare questo mondo prima che vada in pezzi, tenente».

Tony fece un sobbalzo. «Prima che questo mondo vada in pezzi?»

«Certo. Naturalmente. Lei...» Improvvisamente le sue pesanti ciglia si abbassarono. «Lei non ne sapeva niente? Uhm. Uhm». Si accarezzò la mascella con la fronte aggrottata. «Si ricorda del pianeta in fase, la mezzaluna, che ha visto con Masters? Be', Masters ha fatto dei calcoli e... è meraviglioso, figliolo!» Gli occhi gli si illuminarono. «Spira aria grama, mio caro. Ora non solo sappiamo che l'asteroide è nato dallo sgretolamento di un pianeta, ma ne sappiamo anche la causa. È stata la collisione con un corpo celeste più piccolo e pesante».

Tony impallidì. «Vuol dire...» disse, sentendosi mancare il fiato. «O cribbio!» La fronte gli si imperlò di sudore. «Fra quando accadrà», chiese.

«Be', i calcoli li ha Erle. Comunque direi tra diciotto o diciannove giorni. Sarà uno scontro che farà tremare il Sole. E noi saremo qui per assistervi». Fece un sorriso che era quasi una smorfia. «Io sono più uno scienziato che un uomo, credo. Non mi soffermo neanche a pensare che potremmo morire tutti in quello scontro e che gli scheletri siano sei invece che uno solo».

«Non ci sarà nessun scheletro», gli occhi di Tony si restrinsero. «Intanto noi possiamo riparare l'astronave, anche se questo vorrà dire lavorare come matti. E poi... l'anello l'ho gettato nel fiume e non esiste più».

Laurette parve impallidire. «Io... io non capisco come abbia potuto farlo...» balbettò. «Lei non avrebbe dovuto sbarazzarsene... era impossibile. No?»

«Adesso non c'è più», ripeté Tony ostinato. «È sparito per sempre. E non se lo dimentichi. Non ci sarà nessun scheletro. E potrebbe cercare di ficcarlo bene in testa anche a Masters, così che non cerchi più di procurarsene uno a tutti i costi», aggiunse in tono significativo.

Con un cenno di saluto uscì dalla stanza e pochi secondi dopo entrò nel saloncino. Braker e Yates si voltarono. Erano entrambi ammanettati.

Tony prese di tasca la chiave e le manette si aprirono. Poi con poche frasi rapide e pungenti spiegò loro la situazione, cercando di chiarire bene che l'astronave avrebbe dovuto essere lontana dal pianeta prima della collisione. Yates si sarebbe occupato dell'impianto elettrico. Braker, Masters e Tony avrebbero lavorato con le torce ad acetilene e i martelli per riparare il foro nello scafo e i razzi ejettori.

Poi spiegò anche dell'anello.